In Nord Corea più morti che in Irak. Oggi, 2003

Di Rodolfo Casadei
13 Novembre 2003
Sono passate tre settimane da quando è apparso, ma ancora nessun media italiano si è degnato di darne notizia

Sono passate tre settimane da quando è apparso, ma ancora nessun media italiano si è degnato di darne notizia. The Hidden Gulag – Exposing North Korea’s Prison Camps è il primo di una serie di tre rapporti che il Comitato Usa per i diritti umani nella Corea del Nord (un’organizzazione non profit bipartisan) si è prefisso di redigere in tempi stretti. Questo primo dossier fa il punto sul sistema penitenziario destinato ai prigionieri politici nel paese di Kim Jong Il, sistema a causa del quale, come spiegava il Washington Post nell’aprile scorso, «a causa delle condizioni proibitive nei campi di detenzione, circa 400 mila prigionieri sono periti negli ultimi tre decenni». Il che significa una media di oltre 13 mila all’anno, cioè lo stesso numero di vittime che, secondo ricercatori delle università Usa, avrebbe causato la guerra americana in Irak. A cui vanno sommati «da 1 a 3 milioni di morti a partire dalla metà degli anni Novanta» prodotti dalla carestia frutto del tracollo del sistema agricolo comunista.
Il nuovo rapporto, steso dall’analista David Hawk, contiene le testimonianze di 30 ex prigionieri ed ex guardie, riparati in Corea del Sud dopo molte peripezie, ed immagini satellitari dei campi di detenzione. Il quadro che ne esce è spaventoso. Si trovano detenuti politici, per un totale che oscilla fra le 150 e le 200mila unità, in tre distinte entità: colonie politiche penali di lavoro (kwan-li-so) per condanne all’ergastolo; penitenziari per sentenze a termine (kyo-hwa-so); centri di detenzione per fuggitivi rimpatriati dalla Cina (jip-kyul-so). Nelle colonie sono internate anche le famiglie dei detenuti (che però non possono avere rapporti con loro) e i loro discendenti, in base ad una vecchia direttiva di Kim Il Sung riguardante i nemici di classe che stabiliva: «il loro seme deve essere eliminato fino alla terza generazione». Nei penitenziari i detenuti politici sono mescolati a quelli comuni e le condanne sono a termine, ma migliaia muoiono prima della liberazione a causa della povertà della dieta e della durezza del lavoro. Nei centri per i rimpatriati dalla Cina le detenzioni sono ancora più brevi (in genere sei mesi), ma il tasso di mortalità ancora più alto per la mancanza di cibo e la pesantezza del lavoro. In tutti e tre i livelli la pratica della tortura e dei maltrattamenti è abituale: i prigionieri vengono picchiati o obbligati a picchiarsi fra loro, presi a calci, obbligati all’immobilità, privati del cibo, del sonno, appesi per i polsi, immersi nell’acqua gelida, ecc. I fuggitivi ripresi vengono impiccati o fucilati. Le donne incinte rimpatriate dalla Cina vengono costrette ad abortire oppure i loro neonati vengono trucidati: su questo punto le testimonianze sono convergenti. I reati politici per cui si può essere condannati sono i più vari: Ji Hae Nam è stato condannato a tre anni di lavori forzati per aver insegnato una canzone pop sud-coreana a quattro amici. Kim Jong, tenente colonnello dell’esercito allevato in un orfanotrofio, fu arrestato a metà degli anni Novanta quando si scoprì che il padre era stato condannato come spia degli americani. Dopo tre anni di torture e lavori forzati è fuggito rocambolescamente. Altre storie e notizie le trovate all’indirizzo Internet www.hrnk.org/hiddengulag/toc.html.

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