
Non si tocca l’orario degli insegnanti. Ma a perderci è la ricerca
Non si tocca l’orario degli insegnanti, ma il risparmio di 183 milioni sulla scuola è legge. Circa 50 milioni saranno sottratti ai bandi per la ricerca scientifica e tecnologica, e 47,5 milioni ai fondo per il miglioramento dell’offerta formativa. Altri 80 milioni giungono dai risparmi accantonati dal comparto scuola nel 2011. La vittoria sindacale ha i suoi chiaroscuri, la ricerca è ulteriormente bistrattata. Tempi.it ne parla con Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Giovanni Agnelli.
Comunque ci si muova, si pestano i piedi di qualcuno.
È inevitabile nel momento in cui si propongono dei tagli. La mia preoccupazione è che, da ora, non si possa più dibattere sull’organizzazione del lavoro degli insegnanti, perché è diventato il tema di uno scontro politico-sindacale. Si può discutere del merito di questa iniziativa, ma mi preme che la scuola cambi dal punto di vista organizzativo. E ho paura che per alcuni anni non ne parleremo più.
L’aumento delle ore senza un incremento dello stipendio influiva negativamente sulla professionalità di un insegnante?
No. Ci sono insegnanti che già lavorano moltissimo, fanno molto più delle diciotto ore canoniche tra correzioni, preparazione e coordinamento didattico. Al tempo stesso, però, ci sono insegnanti più refrattari a una simile modalità di lavoro. Quindi, il vero punto debole è che il sistema non valorizza chi si impegna e non richiama all’ordine chi non fa il suo dovere. Va benissimo richiedere uno sforzo aggiuntivo in un periodo aggiuntivo, ma chi lavora tanto deve essere premiato.
Se ai vari tagli aggiungiamo la tassazione delle borse di studio, ne esce un ritratto dell’Italia che non punta alla ricerca.
Gli obiettivi di Lisbona prevedevano investimenti nella ricerca parti al 3 per cento del Pil. Quest’anno l’Italia non raggiunge l’un per cento. Tagliare i fondi per la ricerca è un autogol, anche perché i più penalizzati saranno i giovani che studiano ad alto livello. E, tra questi, quelli che non hanno un background socio-economico elevato.
Il modello scolastico italiano è in crisi. A chi guardare?
I casi di eccellenza sono i modelli asiatici – Corea, Cina, Singapore – e quelli scandinavi – come la Finlandia –. Questi ultimi sono più facilmente esportabili in Italia, e da essi si può imparare molto. È tuttavia difficile pensare a un modello esportabile in blocco. L’Italia ha marcatissime differenze interne. Da noi convivono sistemi scolastici all’avanguardia (come in Trentino e in Lombardia) e fortemente arretrati (specie al Sud). Una ricetta che valga per tutto il paese è inesistente.
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