
Non si chiude un caso come Lidia Macchi, «una ragazza davvero libera» (con una lettera inedita)

«Quel giorno accadde tutto casualmente. I miei tornarono a casa con un giorno d’anticipo dalle vacanze e senza avvertire nessuno. Lidia si trovò quindi in possesso dell’auto senza però avere alcuna possibilità di avvisare nessuno dei suoi programmi o dei suoi spostamenti. Al contrario di quello che gli inquirenti hanno sempre pensato e verso cui hanno rivolto le indagini. Si è indagato nell’ambiente domestico e in quello delle frequentazioni di mia sorella, tralasciando indizi importanti… Aspetteremo l’esito del processo e poi vedremo, non vogliamo un colpevole a tutti i costi. Per questo siamo sollevati che sia stata chiesta l’archiviazione per don Antonio Costabile, accusato ingiustamente per 27 anni». (Alberto Macchi, fratello di Lidia, intervistato da La Provincia di Varese, 28 luglio 2014)
È in magistratura da quarant’anni. «Sono l’incarnazione stessa della separazione delle carriere. Mai giudice, sempre e soltanto pm». È l’unico sorriso che ci regala. Il resto è fredda anamnesi di casi giudiziari. Con un’unica eccezione. La vedremo più avanti. Si chiama Carmen Manfredda e ha troppa passione e cura per il proprio mestiere di pubblico ministero per fidarsi di ipotesi investigative che non siano dure come il granito. Fatti. Solo fatti. E riscontri fattuali.
Nel caso, dare un volto all’assassino di Lidia Macchi, una ragazza di 21 anni uccisa con 29 coltellate 27 anni fa, potrebbe sembrare una missione impossibile. Dunque? «Processo indiziario». Sono passati ventisette anni da quella notte di sangue, gelo e buio. Il granito è stato levigato dal tempo. Ma se l’esame del Dna (fu il primo in Italia) non sembra oggi più utilizzabile (venne svolto in un laboratorio inglese e i reperti biologici trovati sul cadavere di Lidia non furono adeguatamente conservati dopo che i risultati esclusero compatibilità con l’impronta genetica dei primi indagati, in cima a tutti don Antonio Costabile), tre indizi fanno ancora una prova. Nel caso di Lidia ci sono tutti e tre. E molti di più.
Ci sono l’identikit e il fotofit del presunto assassino che ha somiglianze impressionanti con il Giuseppe Piccolomo ritratto accanto a sua moglie in una foto risalente agli anni Ottanta presentata nella puntata di Quarto Grado andata in onda il 18 ottobre del 2013 dalla giornalista Mediaset Ilaria Cavo. Ci sono le testimonianze di quattro donne che quell’identikit e quel fotofit fornirono agli inquirenti dopo che il 3 gennaio erano state seguite, molestate e aggredite nello stesso parcheggio di ospedale dove il 5 gennaio Lidia posteggerà l’auto, entrerà in visita a un’amica e uscirà alle 20,30 (testimonianza di un’infermiera) per non fare più ritorno a casa. E c’è, soprattutto, la testimonianza delle due figlie di Piccolomo, che lo accusano di aver espressamente rivelato loro di avere ammazzato la studentessa. Altri pesantissimi indizi si sono accumulati negli ultimi mesi a formare un quadro molto persuasivo. Si vedrà. «Ho il massimo rispetto per la dialettica processuale. Perciò attendo le controdeduzioni dell’avvocato prima di depositare la mia richiesta di rinvio a giudizio», dice Manfredda.
Intanto l’ex imbianchino di cui il processo per l’assassinio di Carla Molinari (il cosiddetto “delitto delle mani mozzate”) ha squadernato la doppia personalità di padre di famiglia e aguzzino, seguita a negare tutto. Nega l’evidenza probatoria, l’esame del Dna, i testimoni che l’hanno inchiodato all’ergastolo in tutti e tre i gradi di giudizio per l’omicidio dell’anziana donna. Nega di aver ucciso con premeditazione e brutalità la prima moglie Marisa Maldera, arsa viva nell’auto. E, soprattutto, nega di essere stato il carnefice di Lidia Macchi.
Per quanto riguarda la prima moglie, nemmeno tre polizze sulla vita che lui stesso aveva chiesto (forse con costrizione) alla consorte di stipulare solo tre mesi prima della sua morte e regolarmente da lui incassate, ricordano a Piccolomo un possibile movente. Ma l’uomo sembra aduso alla rimozione e al resettamento. Nonostante le prove schiaccianti sul “delitto delle mani mozzate” si dichiara ancora innocente. E non si è riusciti a risalire, almeno in sede processuale, al motivo per cui ha assassinato Carla Molinari. Per la moglie nega ogni evidenza. «L’ho sposata, avevo altre storie, ma perché dovevo ucciderla?». I fatti, però, non solo le denunce delle due figlie (nel 2003 l’uomo se l’era cavata con un anno e quattro mesi, omicidio colposo), hanno convinto la procura di Varese a portarlo alla sbarra. Però si era difeso, aveva proclamato la sua innocenza, per il primo come per il secondo omicidio. E ancora si difende. Dalla sentenza definitiva per il primo e dall’imputazione per il secondo.
Solo su Lidia Macchi si è avvalso della facoltà di non rispondere. Davanti al magistrato. Ma non davanti allo schermo televisivo. Dove le sue personalità, doppie (e forse triple), sembrano sguazzare in compagnia di quelle di ogni utente normale. Già, perché nella realtà virtuale non esistono verità ma solo versioni. Esiste Narciso e il suo specchio. Esiste il mimetismo gaglioffo, la cura ad apparire così come il gioco dei ruoli. Piccolomo si fa intervistare da Quarto Grado e dice la sua verità a milioni di telespettatori. Ma non al magistrato. Perché? Perché il magistrato forse ne sa più delle sue interviste e versioni. L’ignoranza, l’irrealtà, l’emozione che suscitano i pro e i contro, funzionano solo in tv o nel social network. Tant’è. Piccolomo era un uomo che portava il coltello in tasca come un rosario. Ed era pratico e lesto nel suo uso, come la vecchina in chiesa snocciola le sue Ave Maria e Paternoster. Risulta per altro agli atti che l’ex imbianchino è un appassionato delle crime fiction tv.
«“Eravamo una famiglia con tanti problemi. La famiglia Addams ci faceva un baffo. La mamma era una donna meridionale, ci diceva che i panni sporchi vanno lavati in casa e che certe cose succedevano in tutte le famiglie, ma per fortuna nostro padre ci aveva solo molestato senza farci di peggio”. Le donne ricordano che il papà le chiamava nel lettone, le toccava e si masturbava fin da quando erano piccole. C’erano le botte e anche le minacce. Con il coltello e con l’ascia: “Aveva il demonio negli occhi, non era in lui”. (…) Dichiarò alle figlie che la loro madre era morta bruciata viva nell’incidente a Caravate, perché era troppo grassa; indugiando crudelmente sui particolari: “Ci disse che vide la mamma sciogliersi e che la pelle le si staccava di dosso”. Le figlie l’hanno sempre accusato ma lui, anche dopo la condanna (ma solo per omicidio colposo) avrebbe risposto: “Io quando faccio le cose, le faccio bene, non sono riusciti a trovare le prove i carabinieri e le volete trovare voi?”». (Dichiarazioni di Nunziatina e Filomena Cinzia, figlie di Giuseppe Piccolomo, rese nel corso di un’udienza al processo di primo grado allo stesso Piccolomo, accusato per l’omicidio di Carla Molinari, detto “il delitto delle mani mozzate”, e in seguito condannato in tutti e tre i gradi di giudizio all’ergastolo, Varese News, 28 marzo 2011)
Sono le 19.34 dell’1 dicembre 2013. Sulla pagina dell’edizione online della Provincia di Varese, tra i commenti in calce a un articolo che dà notizia delle nuove indagini in corso sull’omicidio di Lidia Macchi e dell’indagato Giuseppe Piccolomo compare questo messaggio. Ed è ancora lì. «Buongiorno, sono Cinzia Piccolomo, volevo fare una doverosa precisazione riguardo la frase virgolettata che io e mia sorella avremmo riferito; non si tratta della minaccia di farci fare la stessa fine della povera Lidia ma di essere stato lui l’autore dell’omicidio (sono stato io a uccidere Lidia Macchi) mimando poi il gesto delle coltellate. Sono dettagli ma sono importanti. Vi prego quindi di limitare l’uso del vigolettato a frasi effettivamente dette da noi. Abbiamo sempre fatto della ricerca della verità il nostro principio ispiratore anche perché è la verità sulla morte di nostra madre che ci ha spinto ad esporci in prima persona. Vi ringrazio per l’attenzione, cordialmente. Cinzia Piccolomo».
Cos’era successo per riaprire un caso che la procura di Varese non aveva mai archiviato ma neppure risolto? Un imprevisto. È il 6 febbraio del 2013. Carmen Manfredda, procuratore generale presso la corte d’appello di Milano, ha appena ottenuto la conferma dell’ergastolo per Giuseppe Piccolomo per l’omicidio di Carla Molinari. All’uscita, mentre si trova a conversare con il cronista della Prealpina Luca Testoni, viene avvicinata da due signore sulle quarantina. Sono Nunziatina e Filomena Cinzia, figlie di Piccolomo. «È un mostro, ha ucciso anche nostra madre, se l’è cavata con l’omicidio colposo e la condanna a un anno e mezzo di carcere». Salta fuori anche il nome di questa Lidia Macchi. Il nostro pg non sa nulla di entrambe le vicende ma promette il suo interessamento. Chiede prima in visione gli atti del processo a Piccolomo per l’omicidio colposo della moglie. E ottiene la riapertura delle indagini a Varese. Poi, il 15 luglio 2013, chiede anche gli atti delle indagini sul delitto della studentessa. Si immerge nella lettura e dopo tre mesi conosce ogni particolare di quelle carte. Il 22 novembre 2013 ottiene l’avocazione del fascicolo da Varese a Milano. Il 28 luglio 2014 il magistrato milanese chiude le indagini e deposita l’atto di accusa: l’assassino, a giudizio della procura, ancora una volta, per la terza volta, è lo stesso: Giuseppe Piccolomo.
«Per “oltre 27 anni” don Antonio Costabile, responsabile del gruppo scout frequentato da Lidia Macchi, la studentessa trovata cadavere nel 1987 nei boschi del Varesotto, ha dovuto convivere con un “ingiusto alone di sospetto” che ha provocato un grave “danno” alla sua “immagine”. Ed è per questo che la procura generale di Milano, titolare delle nuove indagini su quel cold case, ha voluto concedergli la dovuta riabilitazione con una richiesta di archiviazione che la procura di Varese non aveva mai formulato, invece, anche perché ha indagato informalmente su di lui per anni, ma senza mai iscriverlo». (La Repubblica online, 28 luglio 2014)
Nonostante le sollecitazioni di ambienti ecclesiali che si erano rivolti agli allora ministri della Giustizia (Rognoni prima e Vassalli poi) per sollecitare una ispezione alla procura di Varese, non c’era stato niente da fare. Nonostante la completa insussistenza di indizi la procura aveva sposato un unico filone di indagine: quello che mirava a cercare il colpevole negli ambienti ecclesiali frequentati da Lidia. Cl e boy scout. In particolare, il pm Agostino Abate si era concentrato su un prete, don Antonio Costabile, responsabile degli scout di Varese.
Trascorsi oltre ventisette anni, lo scorso luglio, in procura di Milano, è emerso l’incredibile dettaglio: benché sia stato a lungo indagato, non solo don Costabile non è mai stato formalmente accusato del delitto Macchi, ma neppure è mai stato mai scagionato da quella tremenda accusa. Studiando gli atti il pg ambrosiano ha infatti scoperto che malgrado nei confronti del sacerdote (che attualmente ricopre l’incarico di responsabile per la catechesi presso la diocesi di Milano) la procura varesina avesse svolto diverse indagini, il religioso non è mai stato iscritto nel registro degli indagati. Così, è solo il mese scorso, per tramite dello stesso pg Manfredda e dell’avvocato generale Laura Bertolè Viale, che la giustizia italiana ha proceduto alla sua iscrizione. Un atto dovuto. Ma solo ed esclusivamente al fine di procedere alla immediata richiesta di archiviazione «a totale chiarimento della sua posizione» e considerata «la insussistenza di qualsiasi indizio a suo carico».
Si capisce, Il processo di Kafka è quanto mai attuale in Italia. Non dovuto, ma di squisita sensibilità umana oltre che a (parziale) riparazione di una mostruosità che ha tenuto per oltre ventisette anni un uomo sotto l’ombra di un orrendo sospetto, è l’atto, la telefonata, con cui Carmen Manfredda ha convocato il sacerdote in procura. «Devo venire con l’avvocato?». «Mannò, stia tranquillo, venga da uomo libero». Seguirà l’incontro di chiarimento e l’annuncio del pieno proscioglimento. Immaginiamo la gioia del poveretto. Dopo 27 anni di supplizio.
«Carissima Mara, abbiamo appena appeso il telefono ed io mi sono con amarezza resa conto che in fondo ti ho raccontato solo le cose più banali della mia vita di adesso. A me sta capitando una cosa straordinaria e un po’ confusa ma veramente grande; è come se in me adesso ribollissero con chiarezza un sacco di domande e di desideri sulla vita». (Lidia Macchi, lettera a un’amica scritta pochi mesi prima di essere assassinata, Tempi n. 31-32-33 del 20 agosto 2014)
«Pronto, dottoressa Manfredda? So che si sta occupando del caso di Lidia Macchi. Le volevo chiedere udienza e segnalare una sua lettera che abbiamo appena pubblicato sul nostro sito». Dall’altra parte il silenzio è rotto da una risposta asciutta. «Conosco quella lettera quasi a memoria. È agli atti». Il giorno successivo, in una Milano già in vacanza, facciamo una lunga chiacchierata su come è arrivata a riaprire le inchieste su Lidia e Marilena. Da pg ha anche sostenuto l’accusa nell’appello sul delitto Molinari. «Pensi, forse non avremmo cavato un ragno dal buco se quella negoziante non fosse venuta a testimoniare di aver visto un tale che prelevava mozziconi di sigarette da un portacenere davanti a un bar e li infilava in un recipiente. Piccolomo ha premeditato il delitto. E anche la messinscena. È un appassionato di film sul crimine. Credeva di averle pensate tutte: le mani tagliate per evitare il Dna dei lembi di pelle rimasti sotto le unghie della vittima. E i mozziconi di sigarette, tutti diversi, per depistare le indagini. E invece l’imprevisto accade».
Immaginate una persona che ne ha viste di tutti i colori. Nel caso si tratta di una bella signora, elegante, fredda, quasi algida. Carmen Manfredda ci offre una sintesi degli atti processuali di tre crimini orrendi senza tradire la minima emozione. Non fa una piega. È come un chirurgo dove è passato l’Isis. In quasi mezzo secolo di carriera la scena del delitto e la crudeltà delle persone sono state il suo pane quotidiano. «Eppure credo di non aver mai mancato all’obbligo, che ogni pubblico ministero deve o dovrebbe rispettare, di cercare eventuali prove a discapito dell’indagato, come prescritto dalla legge». Cosa c’è di diverso per il caso Lidia Macchi? «Lidia. Guardi io non sapevo neanche chi fosse. Quando queste due donne mi hanno supplicato di occuparmi della morte della loro madre e poi mi hanno raccontato anche di questa storia con cui loro padre le terrorizzava, sono andata su internet per capire di cosa stavano parlando». Poi chiede gli atti a Varese. «E per mesi e mesi mi sono immersa in questa vicenda. Ora, al di là delle risultanze processuali, trovo che la personalità di questa ragazza sia di una ricchezza straordinaria. Lo ammetto, mi ha colpito». Cosa l’ha colpita? «La sua libertà, la sua autonomia di pensiero, direi la sua laicità. Un pensiero di una acutezza superiore. Lidia era una ragazza veramente libera. Libera mentalmente. Completamente estranea ad ogni schema». Cosa le rimane di questa storia? «Ancora una volta Lidia, un fascino intellettuale senza limiti».
* * *
Carissimo don Fabio, (…) l’altra sera avevo invitato a cena la Giovanna Bernasconi per festeggiare il compleanno di mia sorella e poi tutte e tre ci siamo messe a chiacchierare con mio papà sull’esperienza che noi facciamo e che ci permette di affrontare in modo diverso le situazioni che viviamo. Ad un certo punto con nostra grande sorpresa mio papà ci ha raccontato come vanno le cose per lui adesso e ti assicuro che raramente ho provato un dolore così lancinante.
In sostanza vive un periodo di profonda solitudine ed insicurezza. I rapporti di lavoro, i momenti di divertimento, la famiglia stessa, sebbene il nostro legame sia molto importante, sono per lui adesso un susseguirsi di cose senza senso, che lo opprimono e lo riconducono ad un unico punto, la vanità di tutto, della vita stessa.
Io sentivo che faceva fatica a raccontarci tutto questo; ma d’altra parte il grido che emergeva da questa sua posizione mi coinvolgeva e lo sentivo direttamente rivolto a me e non potevo non immedesimarmici e chiedermi che cosa si provi a quarant’anni nel rendersi conto di aver trascorso gran parte della proria vita negando la possibilità per sé di un senso più grande a tutto l’insieme di sensazioni, di idee o princìpi morali, ai quali ci si appoggia alternativamente secondo quello che ci sembra giusto o conveniente, oppure sforzandosi di fare della famiglia, poi dell’amata e poi ancora del lavoro ed infine del proprio male, che appare inevitabile, degli scopi duraturi che si rivelano in realtà insufficienti rispetto alla domanda che si ha in sé.
Che cosa si può provare se non orrore per il proprio limite ed una grande, tremenda rassegnazione, che diventa negazione di una possibilità di salvezza? Perché l’esperienza al posto di spalancare al mistero della vita diventa come un muro che impedisce di vedere la vita stessa, anzi che permette di guardarla, come un insieme di mali e sofferenze necessarie che si sopportano, ma per chi e per che cosa questo non lo si capisce.
Però dentro le sue parole io rinvenivo come una dolce dicotomia per cui da una parte proclamava il non senso della vita, mentre dall’altra la realtà lo colpiva con il suo fascino straordinario, per cui con lo sguardo illuminato raccontava dell’alba stupenda alla quale aveva assistito alla mattina e con speranza e molta paura di quel bambino che presto sarà fra di noi.
Io mi sentivo così insufficiente ma non potevo non ribellarmi a questa posizione, a questo disamore radicale per se stesso, alla presunzione sottile di un male compiuto che si ritiene per lo più agli altri incomprensibile ed in ogni caso imperdonabile.
Ma di quale male tanto crudele siamo capaci così da ritenerlo superiore alla forza del Suo perdono? Per me è come se noi in realtà ingrandissimo il nostro male, il nostro peccato fino a farne l’ostacolo insuperabile che ci preclude inevitabilmente la salvezza, ma credo che il nostro moralismo sia tale da permettersi in se stesso delle trasgressioni, purché però non siano tali e così radicali da farci scoprire bisognosi di redenzione. (…)
Anch’io adesso sono posta di nuovo radicalmente di fronte al mio limite, poiché la gioia che provo per questa vita e che comunico a quelli che mi stanno intorno non ha le sue radici in un carattere particolarmente ottimista, come tutti si ostinano a credere. L’ho invece imparato grazie a delle persone precise che ho incontrato e perché se il Signore non mi avesse scelto per sé veramente la mia consistenza sarebbe pari a quella di un nulla. (…)
Lidia Macchi
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2 commenti
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Caro Luigi, talvolta la conti giusta. Ringrazia la cronaca che ti fa incontrare Lidia Macchi ( mia concittadina).
Meravigliosa testimonianza di Amore quella che traspare nella lettera.. Esempio di “santità comune”
Grazie Lidia,
la tua morte non sarà inutile, ma un seme di speranza