Non perdiamo per strada le perle preziose scoperte in questa grazia forzata

Di Pier Paolo Bellini
13 Aprile 2020
In quarantena e nell'emergenza l’Italia ha riscoperto vocazioni, radici, rapporti. Ma non #andràtuttobene se non faremo memoria. Tre spunti
Panieri solidali appesi a un balcone di Napoli durante l'emergenza coronavirus

Articolo tratto dal numero di aprile 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

1. Siamo un bel popolo perché abbiamo buone (inconsapevoli) radici. In tanti si stanno stupendo di questa pasta buona che emerge sempre, magari poco prima del baratro. Abbiamo visto studenti e docenti scoprire lo strano privilegio di “poter continuare a lavorare”, di non perdere tempo (summa damnatio), di poter fare “il proprio”, rivoluzionando tutto in pochissimo tempo: un mio studente mi ha chiesto di interrompere il collegamento durante una lezione online perché lo stavano dimettendo dall’ospedale di Bergamo… 

Abbiamo visto aziende del Nord (ma prima ancora aziende del Sud) rivoluzionare la loro produzione (anche gratuitamente) per affinare le armi (mascherine e respiratori), come ogni popolo deve fare, nelle retroguardie, per spedire i suoi figli migliori sul fronte. (Non dimentichiamoci, tra l’altro, che senza imprenditori noi non avremo più strade, scuole, ospedali…).

Abbiamo visto una categoria di professionisti, fino a ieri (come tutti) in lento e progressivo imborghesimento, essere costretta a fare i conti con la radice “vocazionale” del suo operare (andare al fondo, fino a Ippocrate): lo spettacolo di medici e paramedici obbligati, poco prima del baratro, a chiedersi il più senso profondo di ogni loro gesto. E li abbiamo visti cambiare faccia, perché la vocazione “conviene”. Sempre. 

Abbiamo visto cioè che in Italia ci sono ancora “persone” (merce rara) e che da noi, come diceva anni fa Vaclav Belohradsky, è ancora viva una certa “tradizione europea”, in virtù della quale non si potrà mai «vivere al di là della coscienza, riducendola ad un apparato anonimo come la legge o lo Stato». 

2. Tutti abbiamo visto queste cose. Mediate dalla tv o attraverso internet. Poi siamo tornati nelle nostre camerette (quando va bene), nelle prigioni dorate che la Grazia ci concede: le nostre famiglie come alternativa ai lazzaretti. Ma il tempo passa anche lì dentro e lo spettacolo di umanità vista nei media (più o meno social) non è sufficiente, non ha la forza per riempire la voragine di senso che ogni piccolo gesto reclama. Per chi non è in prima linea, per chi non è al fronte o poco prima del baratro, si apre il baratro del senso, dell’utilità del gesto banale e miseramente infruttuoso. 

Stanco di subire parole-riempitivo, ho ripreso in mano un vecchio testo di don Luigi Giussani in cui si parla della rivoluzione del gesto in quanto tale, a prescindere dai suoi attributi, dai suoi corollari, dai suoi esiti. Il gesto in sé.

«L’Ascensione [chissà come ci sarà concesso di viverla quest’anno] è il mistero della trasfigurazione delle nostre azioni e, perciò, è il mistero della quotidianità proprio in quanto la realtà cristiana si mostra come realtà umana e terrena mutata e, perciò, come esito di miracolo. Ascendendo in alto, realizzando cioè la verità delle cose che è Lui stesso, Cristo trascina dietro di sé una folla di prigionieri, cioè libera anche noi. L’Ascensione è la festa della liberazione, della trasfigurazione quotidiana. La verità dell’universo è Cristo, e noi siamo coloro per i quali la vita di ogni giorno è lo strumento dato con questa vocazione: la vocazione a riempire di lui l’universo; Egli riempie l’universo attraverso noi. L’Ascensione è la vera nostra etica, il vero nostro impegno morale, la descrizione della vera dinamica di Vita. La dinamica vera della Vita è l’Ascensione che è, in noi, l’esito della Risurrezione di Cristo: la trasfigurazione, il volto vero delle cose che incomincia a baluginare».

Che il gesto arrivi a coincidere con la preghiera (“rendilo degno di baluginare”)! Altre parole sono superfluo e scaramanzia. È problema eterno di noi, folla di prigionieri liberati, trovare creativamente (a Sua immagine e somiglianza) il modo di riempire di Lui l’universo ora. 

3. Tutto questo passerà. Non #andràtuttobene. Bisogna attrezzarsi per non perdere per strada le perle preziose scoperte in questa grazia forzata, occorre fare in modo che le migliaia di nostri nonni italiani morti, che la loro memoria preziosa di cui siamo privati, portino frutto nella nostra, di memoria. E per far questo occorre sì, un eroismo: l’eroismo di chi si prende sulle spalle, di chi “si prende tutto a cuore della mia umanità”. 

Insomma: ci manchiamo, ma appena ci riavviciniamo non vediamo l’ora di allontanarci. Questi corpi distanziati socialmente, questa carne che non si tocca più… domani saranno nuovamente disponibili. Che ne faremo? È troppo bello, troppo simpatico e finanche struggente ascoltare i cugini napoletani cantare dai balconi Abbracciame (abbracciame!). Ma poi questi corpi (sempre, poco o tanto, malati) andranno ripresi. Riportati a casa e curati. 

Ancora un mio studente scriveva: «Mi stupisce il fatto che, a causa della situazione che si sta verificando in questi giorni, le persone abbiano un bisogno morboso di FAR SAPERE di avere il bisogno del contatto fisico e della socialità, invece che AVERLO realmente».

Anche l’ironia, lo sappiamo, ha una forza scaramantica: a volte ha un fondo amaro, come una delle tante vignette che girano su Whatsapp: «Facciamoci una promessa: quando tutto sarà finito, il metro di distanza lo manteniamo lo stesso».

Questo dramma del virus ci sta aprendo la porta verso la conclusione “naturale” di un processo “antropologico” iniziato da alcuni decenni: stiamo da tempo tentando di addossare la dimensione “scomoda” della relazione al sistema. La scomodità della vecchiaia (il Giappone l’affida ai robot), la scomodità della famiglia che per sopravvivere, per non saltare in aria, come dice Niklas Luhman, deve farsi smooth (smussata) e carefully carelles (accuratamente disinteressata), perfino la scomodità di mettere al mondo dei figli (che in Svezia si ottengono grazie all’autoinseminazione, ordinando su internet gli ingredienti selezionati). 

Certo, come ci ricorda Sherry Turkle, «un robot è in grado di rilevare se un anziano è disteso per terra a casa, segnale di un possibile pericolo, … [ma] quando i bambini chiedono “Non ci sono persone per questi lavori?”», che cosa possiamo rispondere? Un bambino vede meglio certe cose: «I robot diceva “fanno tutto giusto”; le persone “fanno il meglio che possono”. Ma secondo Bruce era l’imperfezione umana a creare legami più forti».

C’è urgenza di riprendere in mano un ideale all’altezza delle provocazioni, capace di far dire Abbracciame e di portarne il peso, l’imperfezione, fino alla profondità… nella buona e nella cattiva sorte, nella salute e nella malattia.

Foto Ansa

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