
Non c’è più il futuro di una volta

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Viviamo in un’epoca distopica. Non nel senso che mai come oggi è stata fiorente la produzione di fantastiche descrizioni di un futuro orribile cui non riusciremo a sfuggire; ma nel senso che questo mondo in cui viviamo oggi è la distopia che abbiamo immaginato ieri. Nel romanzo di Elan Mastai Tutti i nostri oggi sbagliati (Sperling & Kupfer), uscito in Canada lo scorso anno, il 2016 è un anno ideale, in cui ha raggiunto completo sviluppo il progresso umano. Gli uomini vivono in un contesto tecnologico che garantisce la miglior soluzione possibile a qualsiasi problema risolvibile: gli abiti si creano e si distruggono dallo stesso materiale così non c’è bisogno di acquistarli e poi lavarli, il cibo può essere liberamente prodotto da ciascuno secondo gusti e appetito, l’energia viene tratta dal moto dei pianeti così da garantire accesso illimitato a risorse sempiterne. Questo significa niente povertà né timore per il futuro; niente inquinamento né surriscaldamento globale né cambiamento climatico; niente corsa al petrolio né all’accaparrarsi risorse, quindi pace duratura e immutabile. Il 2016 immaginato da Mastai è un mondo ideale in parallelo al quale si sviluppa, a seguito del malfunzionamento di una macchina del tempo, un potenziale 2016 atroce: quello in cui abbiamo vissuto.
In questo 2016 parallelo, che è poi quello vero, impazza la lotta per le risorse, quindi le guerre, quindi il danno all’ambiente. Curiosamente, fra le varie recensioni entusiaste che hanno accolto Tutti i nostri oggi sbagliati sulle riviste anglofone, ne spicca una che dice: «Immaginate un mondo dove il 2016 è stato glorioso: non è morto Bowie, non c’è stata la Brexit. È in quel mondo che inizia questo romanzo». Il dettaglio rivelatore sta nel fatto che il romanzo non cita affatto né la morte di David Bowie né l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, per il semplice fatto che non poteva prevederle: era stato scritto nei mesi immediatamente precedenti. Si è dunque ingenerata una reazione pavloviana per cui la rivista ha automaticamente associato il 2016 distopico di Mastai a quello vero, dando per scontato che quello appena trascorso fosse un anno passato nel peggiore dei mondi possibili. La morte di Bowie e la Brexit non farebbero che comprovare questo dato di fatto.
Il modo in cui i contemporanei leggono il nostro mondo ha, in effetti, dell’apocalittico. Da un lato è lampante che viviamo nel periodo storico che garantisce le migliori condizioni di sopravvivenza su massima scala a minimo costo (al riguardo basta consultare il divertente saggio Mai stati meglio di Lia Celi e Andrea Santangelo, Utet). Dall’altro però la cronaca quotidiana presenta la contemporaneità come il momento che segna un passo in più verso l’abisso. Tutto è senza precedenti. L’Unione Europea non è mai stata così a rischio. Non c’è mai stato presidente peggiore di Trump. Clima e ambiente sono sull’orlo di devastazioni epocali. Gli immigrati non sono mai stati così tanti. I maschi non sono mai stati così violenti. Arriveranno i robot e ci fregheranno il lavoro. Da Eco a Villaggio, è in atto una moria di personaggi storici insostituibili.
Sono tutte affermazioni che si basano sull’euristica della prossimità, facendoci apparire più grande ciò che è più vicino, così da rendere plausibile un giudizio sproporzionato sul corso del tempo; per questo trovano largo consenso fra masse che beneficiano degli stessi vantaggi senza i quali non sarebbero in grado di esprimere giudizi tanto sommari sull’attualità. La stessa letteratura distopica che ha maggior successo oggi sembra essere basata sulla presa di coscienza dei conclamati mali di oggi più che su un tentativo di penetrazione del futuro.
La felicità come annullamento
Prendiamo Hunger Games di Suzanne Collins (Mondadori), col suo estremo reality televisivo che mette in gioco la sopravvivenza di giovani partecipanti in un’arena, fino a che non ne resta solo uno al quale sono garantite celebrità e ricchezza. È il futuro o è il presente? Il successo della trilogia dipende dall’efficacia con cui drammatizza le aspirazioni di chi oggi attende che il successo gli arrida attraverso il modo in cui un pubblico globale osserva l’immagine che dà di sé.
Anche in Divergent di Veronica Roth (De Agostini) la suddivisione in caste a seconda di inclinazioni e talenti individuali, il cui scopo è evitare guerre, è l’elevazione all’ennesima potenza della settarizzazione in percorsi che sembrano personalizzati, in quanto volti alla piena realizzazione individuale di “ciò che si è veramente” o “ciò che ci si sente di essere”, quando invece sono preordinati. Un approccio uguale e contrario si trova in The Giver di Lois Lowry (Giunti), meno noto ma interessante nel suo delineare una società pacifica resa tale per mezzo dell’annullamento dei sentimenti individuali.
Non è peregrino ipotizzare che la distopia di oggi percepisca il presente come pigra evoluzione delle distopie passate. Non sono pochi i punti di contatto fra The Giver e Brave New World di Aldous Huxley, per esempio. La tematica della felicità come annullamento è presente nell’opera del 1932 tramite le pillole di soma, misteriosa sostanza che euforizza le masse onde garantirne il controllo per mezzo dell’allineamento di ogni possibile baratro individuale in una gioia artificiale collettiva. La divisione in caste di Divergent sviluppa altresì quella prevista da Huxley. Solo che lì dove il classico britannico prevedeva una gerarchia verticale dai più ai meno capaci (o utili al progresso della società), la Roth tende a immaginare una gerarchia concentrica, orizzontale.
Va notato inoltre che fra le nuove distopie che hanno avuto meno successo, pur essendo affascinante, spicca Divided Kingdom di Rupert Thomson (Isbn): forse perché divide anch’egli gli uomini in caste ma in base all’umore che prevale in loro, se sanguigno o collerico o flemmatico o melanconico. Così facendo, Thomson ha radicato la propria distopia su un’eterna caratteristica dell’umano, che resta immutata nel tempo. Il pubblico di oggi sembra invece preferire distopie in cui è il presente a disumanizzarci privandoci delle nostre caratteristiche essenziali.
Le possibilità della storia
È il segreto del successo dell’ottimo Charlie Brooker e della sua serie tv Black Mirror, interamente incentrata sul potere dei monitor (gli specchi neri, appunto) che dominano la nostra vita e ci spingono a pedalare davanti a uno schermo che trasmette intrattenimento personalizzato, così da poter accumulare crediti utili a partecipare a trasmissioni che potrebbero renderci protagonisti di quello stesso intrattenimento. O a giudicare le persone in base al gradimento che registrano sui social in base a ciascuna delle proprie azioni.
La differenza fra il futuro delle distopie contemporanee e il futuro di una volta è che le vecchie distopie facevano forse uno sforzo d’immaginazione in più. Le distopie di oggi sono per lo più amplificazione della presa di coscienza collettiva di vivere in un mondo irrecuperabilmente tremendo. Aldous Huxley invece criticava Henry Ford fino a renderlo un personaggio cristologico, da cui partiva un nuovo computo degli anni e che veniva in qualche modo confuso con Freud, padrone delle anime individuali così come del lavoro collettivo; si faceva però interprete di un timore individuale riguardo a una possibile strada che la storia avrebbe potuto intraprendere.
La vocazione del profeta
Non che Huxley scrivesse in un’epoca serena di pace e prosperità. Allo stesso modo le principali opere narrative in cui Ernst Jünger affronta il futuro cadono in periodi complicati: Heliopolis è del 1949, Eumeswil del 1977. Ciò che cambia è la capacità di aggiungere un ulteriore livello interpretativo radicalmente scettico che faccia capire come le preconizzazioni facciano parte dell’oggi, non del domani. Quelle di Jünger sono meta-distopie. In Heliopolis deride teorici e utopisti che portano luce alle masse delineando nei dettagli un futuro calibrato sulle esigenze del presente. In Eumeswil spiega che il potere dello Zeitgeist è tale da non far imparare nulla dal passato: «Chi agisce immagina di poter determinare il futuro ma viene risucchiato da esso, ne diventa la preda». Qui descrive gli uomini come intenti a volgere lo sguardo verso il passato, non vedendo che un cumulo di ruderi, e succubi di un’immagine riflessa tale che «mentre crediamo di avanzare e progredire, ci dirigiamo alla volta di questo passato. Presto gli apparterremo: il tempo ci oltrepassa».
I distopisti di oggi sembrano, rispetto a Jünger, trovarsi nel rapporto che in Eumeswil lega i partigiani all’anarca, protagonista del romanzo. I partigiani sono immersi nella società presente e tentano di interpretarla alla luce di un programma futuro; l’anarca invece è orientato dai fatti, non dalle ideologie, e per questo ha espulso la società da sé anziché farsene espellere. «Ciò che fa di me un anarca – scrive – è che vivo in un mondo che non prendo seriamente». I distopisti di oggi non scorgono nel futuro l’apertura di un’infinita possibilità poiché lo reputano la diretta conseguenza dell’interpretazione collettiva di ciò che accade oggi; tradendo in ciò la vocazione del profeta che, secondo Jünger, ha il compito di «conoscere, più del futuro, il profondo presente».
Foto Ansa
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