
Non c'è accanimento terapeutico su Alfie Evans
L’intervista rilasciata da monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita (PAV), a tempi.it a proposito del caso del piccolo Alfie Evans, il bambino di 21 mesi che le corti inglesi hanno decretato debba morire mediante rimozione della ventilazione, a mio parere ha il grande pregio di rivelare alcuni gravi errori d’impostazione delle problematiche di fine vita, anche in ambito cattolico. Monsignor Paglia motiva la liceità della sospensione della ventilazione nella “inesistenza di un trattamento valido”. Ma che vuole dire valido? Valido a fare cosa?
Se la ventilazione ha il compito di sostenere le funzioni vitali di un bambino gravemente malato, allora la ventilazione di Alfie è un trattamento valido. Essa assicura al piccolo la sopravvivenza e lo previene dalla sofferenza che gli deriverebbe dall’asfissia. Paglia cita la risposta di papa Pio XII a tre quesiti di morale medica sulla rianimazione del 24 novembre 1957, ma quell’intervento del Pontefice aveva per tema la ventilazione in caso di morte cerebrale che non veniva descritta come tale soltanto perché il termine verrà varato nel 1968 dal Comitato di Harvard e nel 1957 non era ancora disponibile neppure l’espressione “coma dépassé”, impiegata dai due neurofisiologi francesi Mollaret e Goulon nel 1959. In quel documento papa Pacelli si rimetteva ai medici circa la diagnosi di morte, posto che per la Chiesa essa corrisponde alla separazione completa e definitiva dell’anima dal corpo. Il magistero successivo di san Giovanni Paolo II accetterà di poterla diagnosticare in presenza della «cessazione totale ed irreversibile di ogni attività encefalica».
Al netto di eventuali errori e danni arrecati in fase diagnostica e degli aspetti filosofici, Alfie non è in una condizione di morte cerebrale (ventilare un corpo funzionalmente equivalente ad un soggetto decapitato costituirebbe un atto evidentemente futile), ma siamo in presenza di un bambino con patologia ad eziologia indeterminata, fortemente invalidante, con grave danno cerebrale a prognosi infausta. Se dunque monsignor Paglia scientemente cita l’intervento di Pio XII per applicarne i criteri al caso di Alfie, allora ritiene le condizioni di stato vegetativo (volendo concedere che Alfie sia in un tale stato) clinicamente e moralmente equivalenti alla morte cerebrale. In tal caso saremmo in presenza di una novità davvero sconvolgente, ben oltre i criteri di morte corticale già di per sé ritenuti inaccettabili dalla bioetica espressa fino ad oggi dalla PAV, dal magistero e dalla legislazione italiana, un soggetto in stato vegetativo sarebbe per il presidente della PAV un cadavere.
Peraltro, se come dice Paglia, Alfie è sottoposto ad accanimento terapeutico con la ventilazione, perché non sarebbe stato un accanimento la nutrizione e idratazione per Eluana Englaro? Paglia tiene a precisare che quella di Alfie non sarebbe un’eutanasia. Ma la definizione di eutanasia offerta dal magistero e richiamata dal presidente della PAV non esclude affatto i morituri dai soggetti eutanasizzabili, né a giustificare l’interruzione della ventilazione ad Alfie può essere invocato il concetto di perdita di proporzionalità delle cure, poiché esso non è mai determinato dalla qualità di vita residua. Un trattamento non è proporzionato solo in tre casi: se non fa ciò che dovrebbe fare (se il respiratore non ventila), se ciò che fa risulta futile (se la ventilazione non ossigena), o se ciò che fa causa più sofferenza che sollievo (ed in questo caso non è affatto provato). La ventilazione non è futile, né sproporzionata (dunque invalida, utilizzando l’espressione di Paglia) per il fatto di non determinare la guarigione di Alfie.
Il plauso di Paglia alla posizione assunta dal gruppo di studio dei gesuiti e alla valutazione della legge sul biotestamento da parte dell’Unione dei Giuristi Cattolici secondo cui «la pretesa di dare alla legge una lettura eutanasica è arbitraria e contraria allo spirito della stessa», non fa che confermare quanto ormai in ambienti cattolici l’eutanasia omissiva sia sdoganata col pretesto di evitare trattamenti falsamente indicati come non più proporzionati. Ma così si attribuisce un valore centrale alla qualità di vita e alla prognosi del paziente. Se la qualità di vita è bassa e non vi sono ragionevoli attese per una guarigione, il sostegno vitale viene considerato non più proporzionato e dunque rimuoverlo non costituisce un atto eutanasico. Rimuovere i sostegni vitali è diventato un modo lecito perché persone biologicamente tenaci muoiano in un tempo ragionevolmente breve senza che ciò sia rubricato quale “uccisione”, termine che Paglia rifiuta e sostituisce con quello assai più rassicurante di «sospensione dei trattamenti».
In un suo intervento alla XI Assemblea Generale della PAV, padre Maurizio Faggioni, medico, dunque con competenza tecnica di ciò di cui stiamo parlando, disse parole molto diverse e veramente illuminanti: «Affermare la sacralità di ogni vita umana e dedurne l’eguaglianza di dignità e l’intangibilità non nasconde che le diverse esistenze manifestano qualità diverse, alcune desiderabili ed indesiderabili, non nasconde che per alcuni e, forse, molti la vita non sia felice, compiuta e realizzata, ma non per questo ritiene diminuita la dignità e il valore di quelle esistenze fragili e dolenti […] L’agente morale è, dunque, chiamato non ad attribuire valore, ma a riconoscere il valore intrinseco di ogni vita umana in quanto umana». Probabilmente oggi in quello stesso consesso queste parole sarebbero tacciate di rigorismo ippocratico.
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