Nigeria, dove i cristiani sono eroi. Reportage

Di Rodolfo Casadei
22 Ottobre 2012
Qui gli islamisti hanno squarciato i corpi di donne incinte, mutilato, ammazzato a colpi di machete persone che avevano l’unica colpa di credere in Gesù. Così in Nigeria la violenza continua ma non spegne la fede. Viaggio a Jos

Dal nostro inviato speciale a Jos, Nigeria «Il dolore e l’odio sono due pesi troppo pesanti da portare insieme. Non potevo continuare a soffrire per aver perso Victor e a odiare chi aveva compiuto la strage, così ho lasciato andare il secondo peso: ho perdonato, e adesso la mia anima è leggera. Non l’ho fatto per il bene degli assassini, ma per il mio bene. Adesso sono serena per dire ai nostri giovani “non cercate la vendetta”». Victor Dakogol è una foto a colori dal busto in su circondata da un ovale nero in una pagina di un fascicoletto in carta patinata dedicato, nel trigesimo della loro morte, alle vittime dell’autobomba dei Boko Haram dell’11 marzo scorso contro la chiesa di Saint Finbarr. Insieme alla sua altre tredici foto di vario taglio degli altri tredici parrocchiani falciati dall’esplosione, otto uomini e cinque donne. Il più vecchio è Francis Mado, foto in bianco e nero, 91 anni: di lui non si sono trovati nemmeno i brandelli, è stato polverizzato dall’esplosione; il più giovane, Benjamin Tari, sorride dalla foto di bambino che avrebbe compiuto 10 anni due settimane dopo. Era il più piccolo dei boy scout che stavano al cancello e non lasciavano entrare le auto nel cortile della parrocchia se non dopo un attento controllo del bagagliaio, del fondo del veicolo e dei passeggeri. «Gli apparecchi per controllare la presenza di esplosivi o armi li ha comprati la parrocchia», spiega il parroco padre Peter Umoren. «La domenica davanti alla chiesa c’erano soldati e poliziotti, ma guardavano in giro senza fermare nessuno. Era la prima volta che facevamo quei controlli: due settimane prima c’era stata la bomba alla Church of Christ in Nigeria, temevamo un attacco».

«PERCHÉ DOVREI AVERE PAURA?». La prima domenica che qualcuno bloccava le auto al cancello, quella giusta. A salvare la vita delle 500 persone della Messa delle dieci e trenta iniziata da cinque minuti sono stati Victor, 19 anni, figlio di Monica, la madre che ha perdonato per potersi rialzare, Alex Dalyop, 17 anni, Emmanuel David, 16 anni, Emmanuel Ndat, 45 anni e cinque figli, la guida del gruppo, e il piccolo Benjamin. Victor ha apostrofato il conducente – accompagnato da un complice – che si rifiutava di lasciar ispezionare il veicolo mentre gli altri giravano i paletti del cancello. Finché il terrorista ha azionato il detonatore, ed è stata distruzione e morte per sedici persone più gli attentatori all’esterno della chiesa, ma non per chi stava seduto dentro e ha patito poco delle vetrate andate in frantumi e dei pannelli caduti dal soffitto. «Io vengo a Messa tutti i giorni. Mi emoziono quando passo davanti al punto dove mi hanno mostrato il cadavere carbonizzato di mia moglie», dice David Dung, marito di Regina, otto figli in trenta anni di matrimonio, «ma entro comunque e prego perché Dio ci dia la pace. I nostri cari sono morti per una buona causa, hanno salvato tante vite, e io dovrei avere paura di un altro attacco?». A giugno Boko Haram ha colpito un’altra chiesa di Jos, centralissima, la Christ Chosen Church of God. Se l’intenzione era quella di terrorizzare i cristiani di tutte le denominazioni che la domenica affollano i templi, il progetto è riuscito solo a metà: nell’immediato le congregazioni si sono anche dimezzate, ma gradualmente la gente è tornata all’ovile, e chi non si fa più vedere normalmente non resta a casa, ma frequenta chiese di altri quartieri che considera, non è evidente quanto a ragione, più sicuri.

I GUAI DI JOS. È stupefacente come in questa città la vita riprenda dopo ogni crisi e dopo ogni attacco. Dall’aeroporto alla zona centrale dell’abitato, che si distende per chilometri attorno a colline dalle cime rocciose e frastagliate, si incontrano sei posti di blocco di esercito e polizia. La popolazione di Jos, in passato una delle più miscelate della Nigeria, è ormai ripartita in una scacchiera di quartieri uniformemente cristiani o musulmani. Nessun cristiano può arrischiarsi a percorrere Bauchi Road, nessun musulmano si avventurerà mai nella zona di Janta Adamun. Ma nella vita quotidiana ci si incrocia continuamente. Passanti musulmani sono stati linciati dopo gli attentati alle chiese protestanti in febbraio e in giugno. Dei 14 mila nigeriani periti in violenze nelle quali era presente il fattore religioso dal 2001 ad oggi, circa 4 mila sono stati uccisi in questa regione. Quasi non passa giorno senza che dalle aree rurali dei diciassette distretti (Lga) in cui è divisa la regione di Jos, capitale del Plateau State, giungano notizie di lutti e distruzioni per assalti e agguati che coinvolgono le tribù originarie della zona (berom, anaguta e afizere, contadini quasi tutti convertiti al cristianesimo) e i fulani, allevatori nomadi musulmani da secoli, che muovono il loro bestiame e i loro villaggi su e giù per le colline dello stato. Domenica tre giovani, due cristiani e un musulmano, sono periti in un agguato e nella ritorsione al medesimo; due notti fa 14 persone hanno perso la vita in tre villaggi dei due distretti più infiammabili, quelli di Riyom e Barkin Ladi; stamattina la strada per l’aeroporto era bloccata dalle forze di sicurezza per nuove schermaglie in un’altra zona di Barkin Ladi. Pare ci siano da contare altri tre morti. Nel caso delle ricorrenti stragi fra fulani e berom, è d’uso marginalizzare il fattore religioso spiegando che si tratta di rivalità comuni a tutta l’Africa: allevatori e coltivatori sono destinati ad affrontarsi in vendette senza fine, fino a quando acqua e pascoli saranno beni scarsi. Ma lo schema non sempre combacia con la realtà.

IL MASSACRO DI DOGO NAHAWA. È il caso di Dogo Nahawa, una delle stragi più efferate di sempre: venti minuti di auto da Jos, passando attraverso declivi verdissimi nella stagione delle piogge e vecchie miniere di stagno a cielo aperto trasformate in bacini idrici, ci si imbatte nell’orrore di corpi martoriati e di memorie che sono incubo. La mano destra di Marta manca di due dita, e l’indice è accartocciato. Lunghe e profonde cicatrici sul gomito, un’altra sul lato sinistro della fronte. Lei è sfuggita al colpo fatale degli assalitori fingendosi morta, ma tre dei suoi sei figli,fra i 5 e i 10 anni, sono stati uccisi a colpi di mache te. Affusolate e morbidissime, le mani di Mary sono state aperte in due nel senso della lunghezza dalla furia dei colpi; abili chirurghi le hanno perfettamente ricucite, ma ora sono come arti di bambola rimessi insieme, ancora belli ma inerti. Qui fra queste casupole ricostruite sono successe le cose più turpi che si riescono a immaginare: ventri di donne incinte aperti fino a rendere visibile il feto; crani di bambini sezionati dal colpo del machete che ha lasciato il cervello allo scoperto; famiglie bruciate dentro alle case date alle fiamme, le tre chiese presenti, due protestanti e una cattolica, distrutte. La notte fra il 6 e il 7 marzo 2010 più di cento uomini armati, fra loro alcuni militari col passamontagna, hanno circondato il villaggio e stanato la gente a colpi di mitra, per finirla con machete e falci quando nel buio correvano inconsapevolmente incontro ai loro assassini. Dei quasi duemila abitanti di Dogo Nahawa più di 400 hanno perso la vita. E ora i loro corpi sono interrati nelle vicinanze del villaggio sotto un monumento commemorativo, recentemente devastato da un’alluvione, dove sulla targa sopravvissuta alla furia degli elementi si legge “A eterna memoria delle anime di coloro che morirono per la loro fede in Cristo di fronte alla persecuzione durante il massacro dei cristiani a Dogo Nahawa”. Il titolo di martiri non è usurpato: è vero che i fulani avevano da vendicare massacri nei loro villaggi avvenuti nel mese di gennaio con donne e bambini fra le vittime, ma Dogo Nahawa non c’entrava nulla con quegli avvenimenti. Era semplicemente il bersaglio più facile: un villaggio di gente pacifica e timorata di Dio, privo di fama guerriera e senza armi, della stessa etnia e della stessa religione di chi aveva colpito i fulani. L’azione fu facilitata dalla complicità di alcuni ex residenti di etnia fulani che avevano abbandonato la località a causa di liti coi vicini. I berom di Dogo Nahawa hanno pagato il fatto di essere dei cristiani troppo coerenti col Vangelo: hanno pagato le colpe di altri, come Cristo sulla Croce.

LA FORZA DELL’ARCIVESCOVO KAIGAMA. In tanta tenebra una luce è l’arcidiocesi cattolica di Jos, guidata dall’arcivescovo Ignatius Kaigama. Pochi giorni a contatto coi suoi collaboratori bastano a capire quanto siano meritati i premi che in Italia e in Germania sono stati attribuiti alla sua persona come uomo di pace. Non solo l’arcivescovo si dedica a gesti simbolici come le conferenze congiunte in Nigeria e all’estero con l’emiro di Wase, la figura islamica più importante nel Plateau State; non solo ha fatto costruire un Centro per il dialogo e la pace che ospiterà corsi e seminari per la risoluzione dei conflitti a cui parteciperanno insieme cristiani e musulmani. Ma ha strutturato in questi anni la diocesana Commissione per la giustizia, lo sviluppo e la pace in un’entità per ora senza paragoni nel panorama nigeriano: lo staff dei dipartimenti che si occupano dei conflitti in corso è composto di operatori di tutte le fedi religiose presenti sul territorio, cioè cattolici, protestanti e musulmani, anche nei livelli apicali; la Jdpc, come è conosciuta nel suo acronimo inglese, è l’unica Ong nigeriana istituzionalmente cristiana la cui presenza è accettata anche nei quartieri e nei villaggi musulmani. A Jos per volontà dell’arcivescovo Kaigama per la prima volta in Nigeria è stato spezzato lo schema che vuole che i cristiani soccorrano le vittime cristiane e i musulmani le vittime musulmane. In particolare risulta commendevole il lavoro di due dipartimenti, quello chiamato Emergency Preparedness and Response Team (Eprt) e il programma Peace building and Conflict transformation, diretto da un program manager musulmano: l’universitario Sani Suleiman. L’Eprt interviene tempestivamente nelle crisi per coordinare gli aiuti agli sfollati e per fare sì che siano gestiti direttamente dai bisognosi e non dalle autorità tradizionali che li userebbero in modo clientelare, ma soprattutto svolge un ruolo preventivo. Nei 17 Lga in cui è divisa la regione di Jos, sono presenti team di 15 elementi che fanno da antenna all’Eprt: riferiscono le crisi allo stato nascente al coordinatore centrale a Jos, il quale è in contatto coi comandi delle forze di sicurezza. Si tratta di membri della società civile che appartengono sia a chiese e parrocchie che a organizzazioni musulmane. Questo sistema di allerta rapida ha salvato fino ad oggi centinaia di vite: a rischio della propria incolumità, cristiani e musulmani afferenti all’Erpt chiamano il loro coordinatore per avvisarlo che agguati e rappresaglie sono in preparazione in determinate località. Le forze dell’ordine e i leader delle comunità locali sono allertati; quasi sempre la minaccia è stata disinnescata. Benjamin Anthony, cattolico coordinatore dell’Eprt, riceve tutti i mesi chiamate confidenziali di musulmani che lo avvertono di minacce immediate provenienti dal loro campo.

IL PASTORE E L’IMAM. Il programma di Peace Building sta conducendo il progetto Intercommunal Harmony. Si recano nelle comunità dove ci sono stati scontri etnico-religiosi e individuano esponenti rappresentativi disponibili a momenti di dialogo per la riconciliazione. Con loro fanno un seminario per creare un’atmosfera di fiducia reciproca. Si torna nella comunità e si proietta il documentario “Il pastore e l’imam”, storia realmente accaduta di un pastore pentecostale e di un imam estremista di Kaduna che hanno tentato di uccidersi reciprocamente attraverso i loro sostenitori. Il cristiano è rimasto mutilato a un braccio, il musulmano ha avuto uno zio ucciso. Ora i due si sono riconciliati e insieme collaborano per impedire nuovi conflitti religiosi nello stato di Kaduna. A Bisichi, un gruppo di insediamenti nel Barkin Ladi, il programma è sfociato nella ricostruzione di 40 case distrutte in disordini interconfessionali e nell’installazione di nuovi pozzi attrezzati in siti che richiedono la gestione congiunta di cristiani e musulmani. Immaginate la scena del proprietario di una casa che è stata data alle fiamme e di uno di quelli che hanno appiccato l’incendio, chini insieme a mescolare la malta e a passarsi i mattoni da sistemare nel muro della casa che stanno ricostruendo.

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