Nigeria. Perché le donne rapite da Boko Haram «fanno a gara per diventare kamikaze»

Di Leone Grotti
12 Aprile 2016
Fati, 16 anni, liberata dall'esercito, racconta: «Era sempre la stessa scena. Loro chiedevano: chi vuole diventare attentatore suicida? Le ragazze cominciavano a urlare: "Io, io, io"»
epa04728027 An undated handout picture released by the Nigerian army on 30 April 2015 made available 01 May 2015 and taken this week in an undisclosed location in the Sambisa Forest, Borno state, Nigeria shows a member of the Nigerian Army standing with a group of women and children rescued in an operation against the militant Islamist group Boko Haram. The Nigerian military reported Boko Haram hostages were held in terrible conditions in the Sambisa Forest after they freed nearly 500 women and girls through the week. EPA/NIGERIAN ARMY/HO BEST QUALITY AVAILABLE HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES

Diventare kamikaze è un sogno per le tante ragazze e bambine rapite da Boko Haram in Nigeria. Sembra un paradosso, ma è quello che hanno raccontato molte superstiti, liberate dalle mani dei terroristi islamici da un attacco coordinato nel nord del paese dell’esercito nigeriano e camerunense.

MATRIMONI FORZATI. Fati, 16 anni, è una di loro. È stata rapita nel 2014, all’età di 14 anni, ed è stata data in sposa a un jihadista: «Noi dicevamo: “No, siamo troppo piccole: non vogliamo sposarci”. Ma loro ci obbligavano», racconta alla Cnn dal campo profughi di Minawao in Camerun. Dopo essere stata maritata ad un jihadista, è stata stuprata una prima volta ma le violenze sono proseguite per quasi due anni. Dopo quella prima volta, continua, suo marito le ha fatto un regalo di matrimonio: un vestito viola e marrone con un velo coordinato.

«NIENTE DA MANGIARE». Fati è stata portata nella roccaforte di Boko Haram, la foresta Sambisa, e qui «c’erano così tante ragazze che non riuscivo a contarle tutte». Imprigionate e abusate, venivano anche picchiate se non obbedivano agli ordini. La vita era resa difficile anche dalla scarsità di cibo: «Non avevamo niente. Potevamo contare le costole dei bambini una a una tanto sporgevano». Tra le nuove spose, infatti, ce n’erano anche alcune «molto più giovani di me».

«CHI VUOL ESSERE KAMIKAZE?». È per scappare da tutto questo che le donne, racconta, facevano a gara per diventare kamikaze. «Era sempre la stessa scena. Loro venivano da noi e chiedevano: chi vuole diventare attentatore suicida? Le ragazze cominciavano a urlare: “Io, io, io”. Facevano a gare per diventare kamikaze». La motivazione è semplice: «Non eravamo indottrinate. Volevamo solo scappare da Boko Haram. Se ci avessero dato una cintura esplosiva, magari avremmo incontrato dei soldati nel tragitto e avremmo potuto avvisarli e salvarci. Avremmo potuto fuggire».
Secondo un nuovo rapporto dell’Unicef, se nel 2014 solo quattro bambini sono stati usati come kamikaze da Boko Haram, nel 2015 il numero è salito a 44. In rapporto agli attentati, un attacco su cinque viene portati a termine da bambini. Le femmine rappresentano il 75 per cento dei giovani utilizzati dai terroristi.

DONNE DI SAMBISA. Anche per questo, una volta che le ragazze vengono liberate e portate in un campo profughi, come quello di Minawao, vengono discriminate e definite “mogli di Boko Haram”, “Donne di Sambisa”, “Sangue di Boko Haram” e anche “Annoba”, che significa “peste”. Più di 2.000 donne sono state rapite da Boko Haram a partire dal 2012. Quelle che si salvano e tornano sono accusate di essere reclutatori di Boko Haram e di voler radicalizzare la gente. C’è anche una buona dose di superstizione, sempre aumentata dalla paura degli attacchi, nel ripudio di queste madri e dei loro figli: «Tanti credono anche che i bambini concepiti come il risultato di una violenza sessuale o di relazioni sessuali con i membri di Boko Haram diventeranno la nuova generazione di jihadisti, dal momento che hanno ereditato le caratteristiche violente dei loro padri biologici».

@LeoneGrotti

Foto Ansa

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