Nessuna paura della Primavera araba

Di Rodolfo Casadei
25 Dicembre 2011
Ecco perché dopo l'addio al nucleare, la "Primavera araba" e i nuovi assetti geopolitici i nostri approvvigionamenti energetici sono al sicuro

Pessimisti e ottimisti. Pessimisti come Fatih Birol, economista capo della Iea, l’Agenzia internazionale per l’energia, convinto che la sicurezza energetica mondiale sia in pericolo a causa delle conseguenze della “Primavera araba”, che distoglierà investimenti dalle infrastrutture petrolifere e del gas indispensabili per rispondere alla domanda mondiale per dirottarli in capitoli di spesa sociale, e che perciò produrrà penuria energetica. Ottimisti come Paolo Scaroni, presidente dell’Eni, che non temono affatto un crollo dei flussi dal momento che la Libia è già tornata a produrre, l’Iraq ha grandissimi margini di incremento e l’accessibilità al gas di sciste merito delle tecnologie americane ha inaugurato un’ “età dell’oro” di quest’ultima materia prima energetica, la meno inquinante fra gli idrocarburi. Chi ha ragione?

Un po’ tutti e due, ma soprattutto Scaroni. Perché è vero che dopo la “Primavera araba” molti paesi esportatori di petrolio e di gas sono politicamente costretti ad aumentare la spesa sociale e a destinare una quota maggiore del valore di ciò che estraggono ai bisogni locali; questa tendenza produrrà un aumento duraturo dei prezzi, che non torneranno più sotto gli 80 dollari a barile di petrolio e più probabilmente si stabilizzeranno attorno ai 100. Ma è anche vero che per molti di essi l’export di petrolio e gas è la sola via per procurarsi i profitti con cui alimentare la spesa sociale interna. Da qui la necessità di investire nelle infrastrutture e di concludere accordi e contratti con compagnie di tutto il mondo. Negli anni Settanta-Ottanta del XX secolo i paesi produttori soppesavano di volta in volta se avrebbero guadagnato di più aumentando i volumi della produzione o contraendoli per far aumentare il prezzo per unità di prodotto a fronte di una forte domanda.

Oggi che l’alta domanda asiatica è controbilanciata dalla flessione di quella euroamericana (a causa della stagnazione economica e del ricorso a fonti alternative) la scelta di produrre sempre di più è obbligata: in trent’anni la popolazione dell’Arabia Saudita è triplicata da 9 a 27 milioni di abitanti, quella dell’Iran è più che raddoppiata da 39 a 75 milioni, così come quella irachena che è passata da 14 a 31 milioni, e così via gli altri paesi petroliferi mediorientali. La sicurezza energetica dell’Italia è sostanzialmente al sicuro, soprattutto perché le fonti di approvvigionamento aumentano anziché diminuire. Insomma, l’Italia usufruisce di due canali di approvvigionamento energetico –uno dalla Russia e uno nordafricanomediorientale – e presto disporrà di un terzo, afferente alle risorse della regione del Mar Caspio. L’Italia importa petrolio principalmente da Libia e Russia, e gas principalmente da Algeria, Russia e Libia, ma già nel 2009 l’Azerbaigian è diventato il terzo fornitore di petrolio all’Italia e quest’anno, in coincidenza con la crisi delle forniture libiche, addirittura il secondo. Si è molto fantasticato di un’esclusione dell’Italia dal mercato libico all’indomani della caduta del regime di Muammar Gheddafi a vantaggio di altri paesi, più direttamente coinvolti nelle operazioni militari di sostegno ai ribelli.

Le ripetute dichiarazioni del presidente del Cnt Mustafa Abdeljalil che il nuovo governo rispetterà tutti i vecchi contratti a meno che non emergano gravi casi di corruzione, la ripresa delle attività dell’Eni e soprattutto il fatto che Italia e Libia condividono la proprietà e la gestione di grandi infrastrutture energetiche, come il gasdotto Greenstream che collega la Libia a Gela in Sicilia, fanno pensare che la temuta esclusione o marginalizzazione non avrà luogo. I contratti che l’Eni ha firmato con Tripoli scadono nel 2042 per quanto riguarda il petrolio e nel 2047 per quanto riguarda il gas. L’attività spazia dall’offshore nel mare di fronte a Tripoli al deserto libico occidentale e orientale; le attività di esplorazione sono suddivise in sei aree, quattro sulla terraferma e due offshore, sia in Cirenaica che in Tripolitania. La compagnia italiana non ha mai sospeso completamente le operazioni nemmeno durante la guerra civile, e le ha riprese a pieno regime dopo la fine delle ostilità. Anche nell’ipotesi peggiore, se cioè all’interno del nuovo governo libico prevalessero forze intenzionate a “politicizzare” marcatamente i contratti nel settore energetico, ci sono almeno tre fattori che spingono all’ottimismo.

Perché si può essere ottimisti
Il primo è che dopo il 2003, data della “riabilitazione”internazionale della Libia, le compagnie straniere operanti nel paese sono passate da 11 a 50 soprattutto per l’arrivo di quelle dei paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), gli stessi che si sono di fatto schierati dalla parte di Gheddafi nei mesi della ribellione: se punizione politica ci deve essere, questa dovrebbe cominciare dalle compagnie di tali paesi, anziché dall’Italia che faceva parte della coalizione che è intervenuta dalla parte dei ribelli. In secondo luogo, la Libia detiene riserve di gas naturale per 1.500 miliardi di metri cubi, pari all’1 per cento delle riserve mondiali, ma ha un solo efficiente canale di esportazione: il gasdotto Greenstream che appartiene per il 50 per cento all’Eni (75 per cento fino a un anno fa) e per l’altro 50 alla Noc, la compagnia libica. Un’infrastruttura del genere (che scorre in fondo al mare a oltre mille metri di profondità per 520 km) non si improvvisa. E questo introduce il terzo motivo di ottimismo: i lotti d’esplorazione più interessanti, di petrolio ma anche di gas, si trovano in acque profonde. Le compagnie tecnologicamente attrezzate per raccogliere queste sfide sono poche, essenzialmente quelle americane, la Shell, la Total e l’Eni attraverso la Saipem.

L’Italia ha sofferto meno del previsto per quanto riguarda le forniture energetiche a causa della crisi libica, nonostante prima della guerra il nostro paese importasse dalla Libia 18 milioni di tonnellate di petrolio, ben il 23 per cento di tutto il petrolio che importiamo, e 20 milioni di metri cubi di gas al giorno. L’Italia ha trovato sul mercato spot il petrolio di cui aveva bisogno, rivolgendosi soprattutto all’Azerbaigian, che nella prima metà di quest’anno ha fornito al nostro paese il 18 per cento di tutto il petrolio importato; il blocco del gas libico è stato addirittura una benedizione: in un anno di bassa domanda a causa della stagnazione economica, l’Italia avrebbe dovuto pagare anche il gas che non prelevava effettivamente dal gasdotto dalla Libia e da quello della Russia, essendo entrambi gestiti sulla base di contratti take and pay. Il gas dalla Russia e dall’Algeria è stato ampiamente sufficiente e ci si è risparmiati un aggravio di costi. Si diceva sopra della volontà di diversificare le fonti di approvvigionamento italiane.

I due esempi più importanti sono lo sviluppo del campo di Zubair nell’Iraq meridionale, dove dalla fine del 2009 Eni è leader di un consorzio che comprende compagnie irachene, americane e coreane, e che dovrebbe portare le estrazioni dagli attuali 195 mila barili di petrolio al giorno a 1 milione e 125 mila entro cinque anni. E poi il maxigiacimento di Kashagan in Kazakistan, le cui riserve sono stimate fra i 7 e i 9 miliardi di barili. Qui Eni detiene il 16,8 per cento delle quote in un consorzio con la kazaka KazMunaiGaz, Total, Shell, ExxonMobil, Conoco-Phillips e Inpex. Il primo greggio dovrebbe sgorgare alla fine del 2012, e nel giro di 7-8 anni si dovrebbe evolvere da 370 mila barili al giorno a 1 milione. Nella regione del Caspio l’Eni è anche impegnata nel settore del gas, con l’obiettivo di attrarre verso il mercato europeo il gas del Turkmenistan (8 per cento cdelle riserve mondiali), destinato altrimenti a prendere la strada della Cina. Insomma, l’inaugurazione di uno stabile terzo canale di approvvigionamento energetico per l’Italia accanto a quello russo e a quello nordafricano sembra a portata di mano. Presto Azerbaigian, Kazakistan e Turkmenistan diventeranno per l’energia consumata in Italia quello che oggi sono Russia, Libia ed Algeria.

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