Nessun dolore ci è estraneo. La bella sorpresa di “Est”

Di Simone Fortunato
17 Marzo 2021
L’odissea di tre scavezzacollo nella Romania dell’89, a pochi giorni dalla caduta del regime di Ceausescu. La recensione del numero di marzo 2021 di Tempi
Una scena del film Est - Dittatura Last Minute

Persino i film, ora, paiono statici e passivi, pure loro, che di solito corrono veloci con le loro immagini sullo schermo. Adesso che siamo schiavi del divano, invece, è come se fosse tutto capovolto: tu scorri le dita rapide sull’applicazione e, se riesci in un tempo ragionevole a scegliere il film tra le centinaia, se riesci dico, ti si presenta sempre la stessa cosa, lo stesso prodotto fatto con lo stampino Netflix, il politicamente corretto, gli stessi valori o presunti tali di plastica. 

È quel che resta del cinema, non più un’opera artigianale o addirittura un’opera d’arte, ma il prodotto dell’algoritmo, creato a tavolino chissà in quale laboratorio, che tiene conto non di un criterio oggettivo estetico (magari) ma della cronologia di quel che hai visto sei mesi prima o dei gusti del vicino di casa. Che follia. Bisogna cercarli con il lanternino i film giusti, e spesso nemmeno li trovi quelli che ti mettono in moto il cuore o semplicemente si mettono in moto loro, che è già tanto di questi tempi. 

Così è stata una sorpresa trovare – e ringrazio i lettori Andea Zoffoli e Sara Montalti che me lo hanno segnalato – un piccolo film che doveva uscire all’inizio di novembre ma poi i cinema hanno chiuso per cui tanti saluti. Lo trovate a noleggio su Sky e Timvision e altre piattaforme. Ha un titolo un po’ respingente, l’unica cosa che in effetti mi lascia perplesso: Est. Dittatura Last Minute. Passato in diversi festival internazionali e non (New York, Istanbul, Calcutta e le veneziane Giornate degli autori), il film diretto da Antonio Pisu è un road movie molto classico nell’impostazione e intelligente nel combinare materiali d’epoca con il girato. Protagonisti sono tre ragazzi di Cesena, Pago, Bibi e Rice, che in un fatidico ottobre 1989 partono per un viaggio verso l’Est Europa, con l’incoscienza e forse la stupidità dei loro vent’anni. 

Tratto da una storia vera, il film di Pisu, peraltro ben interpretato dal terzetto protagonista formato da Lodo Guenzi, Matteo Gatta e Jacopo Costantini, in modo molto semplice racconta di un cambiamento: tre ragazzi che, partiti con un carico di calze e reggiseni da vendere (il massimo dello squallore capitalista, verrebbe da dire), andranno a sbattere contro il dolore senza fine di un popolo come quello romeno, poverissimo e ferito, negli ultimi mesi prima della caduta del regime comunista di Nicolae Ceausescu. 

La svolta in una valigia

Un grido di dolore muto davanti a cui i nostri tre proveranno a rispondere, in modi inadeguati e trovandosi in situazioni tra il kafkiano e il surreale: a un certo punto si trovano per le mani persino una valigia di un esiliato dal regime da consegnare alla famiglia, roba che nemmeno nei film di Bond. Eppure i tre, cialtroni, un po’ sbruffoni, a volte un po’ vigliacchi, non si tirano indietro. Non restano inerti ma si muovono, cercano con il poco che hanno, quattro soldi, poche cianfrusaglie, di rispondere concretamente alla sofferenza di un popolo con cui loro all’inizio nemmeno riescono a parlare (conoscono qualche parola in un francese assai stentato). 

I tre ragazzi, in una realtà dominata dalla paura di uscire di casa, dal sospetto di avere i telefoni intercettati, controllati da un regime che c’è sempre anche se non si vede, rischieranno tutto e, anche quando ritorneranno a casa si porteranno sulle spalle quel carico di dolore prima intravisto e poi vissuto. 

Sono tre le sequenze chiave di un film semplice e accorato. La prima, potente, è la svolta narrativa, il primo vero cambio di registro. Tre ragazzi che partono per conquistare l’Europa trovano in Ungheria un poveraccio, scappato da Ceausescu che consegna loro una valigia. In un primo tempo i tre non ci pensano nemmeno, addirittura in una scena comica buttano la valigia fuori dalla macchina, ma poi passeranno giorni a tentare di recuperarla, rischiando tutto, con tantissimo da perdere a partire dai preziosissimi passaporti, spinti non da chissà quale grande ideale ma da un’immagine, la lunga teoria di carretti trainati da cavalli, improbabili automobili, volti segnati dal dolore e dalla dignità di un popolo costretto allo stremo dal regime. Non si può mica stare con le mani in mano di fronte a tutto questo, sembrano dirsi a un certo punto i protagonisti, e così si imbarcano nella folle impresa di recuperare la valigia. 

Come fosse una cosa tua

La seconda sequenza è quella del mercatino: una vendita improvvisata di prodotti capitalisti messa in atto dai tre e che diventa ben presto un’altra cosa, un’oasi di libertà, e al tempo stesso restituisce un’altra immagine della dignità di un popolo nella sofferenza, soprattutto donne, in fila a cercare qualche bene di prima necessità. Ancora, in queste belle immagini di repertorio: volti, volti, mai la massa informe, mai un discorso, come a sottolineare che la tragedia di un popolo devi vederla da vicino, guardandola in faccia o magari dal finestrino della tua macchina capitalista, mica dal divano di casa. 

Infine, il finale, doloroso e composto al tempo stesso nel raccontare la tragedia. 

Con le dovute proporzioni, il film, liberamente tratto dal romanzo di Maurizio Paganelli e Andrea Riceputi, Addio Ceausescu, ce ne ricorda un altro bellissimo e dimenticato degli anni Novanta, Lamerica di Gianni Amelio, dove il regista calabrese si immagina che, in mezzo all’esodo verso l’Italia degli albanesi, un affarista arrivato là per sfruttare la situazione si imbatte nello strano caso di un albanese italiano, un anziano, malandato siciliano arrivato durante la Seconda Guerra mondiale e per varie vicende rimasto lì, convinto di essere davvero albanese. Così i due partono, italiani in mezzo agli albanesi, su una nave stipata di uomini, donne, famiglie intere alla ricerca della Terra promessa, Lamerica, ovvero Brindisi. 

C’è la stessa idea di Est, quella di un viaggio nello spazio che diventa ben presto una ricognizione nel dolore, una lunga strada dove, giorno dopo giorno, chilometro dopo chilometro, la sofferenza dell’altro ti si fa vicina e sempre più reclama attenzione e chiede di essere portata, come se fosse una cosa tua. 

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