
Nella Mosul distrutta dall’Isis «noi cristiani abbiamo già perdonato»

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Che meraviglia la città vecchia di Mosul, adagiata sulla riva destra del fiume Tigri. Da qui passavano le carovane di commercianti che dalla Cina si dirigevano verso i paesi del Mediterraneo. Cuore della capitale economica dell’Iraq, orgoglio dell’Impero ottomano, con la sua architettura medievale, le sue case basse in pietra e alabastro con gli stipiti delle porte istoriati in marmo, il suo dedalo di vie strette, le moschee, ma anche la “piazza delle chiese”, dove il 7 marzo papa Francesco andrà a pregare e dove sorgono i templi antichi della comunità cristiano-caldea violati dall’Isis.
Un cumulo di rovine
Tutto questo oggi non c’è più. Prima la furia iconoclasta dei jihadisti e poi la ferocia dei bombardamenti dell’esercito iracheno sciita, che per stanare le ultime sacche di resistenza di terroristi sunniti si accanì con sicuro intento punitivo su questo sito che potrebbe diventare patrimonio dell’Unesco, hanno trasformato la città vecchia di Mosul in un cumulo di rovine. Percorrere oggi quelle strade, dove i resti silenziosi della grandezza che fu si mischiano agli effetti personali di chi è stato sorpreso da una bomba o da una raffica di kalashnikov (pagine di Corano sparse dappertutto, materassi, coperte, vestiti, peluche, cuscini), equivale a un viaggio nell’orrore e nell’insensatezza della guerra.
Sono passati oltre tre anni dalla liberazione di Mosul dai jihadisti, annunciata il 9 luglio 2017 (anche se servì ancora qualche settimana prima di completarla), ma qui non è stato toccato niente. I bossoli dei proiettili sono ancora mischiati alle macerie e molte case, che secondo l’uso avevano stanze sotto il livello del terreno, non sono mai state controllate. L’odore terribile che esce da alcune di esse fa pensare alla gente del luogo che sotto ci siano ancora cadaveri mai rimossi.

«Tutti qui odiamo l’Isis»
Anche se appare impossibile, c’è ancora qualcuno che osa chiamare questo sfacelo “casa”. Mahmoud Hadi, musulmano sunnita di 51 anni, è uno dei pochissimi abitanti di Mosul a essere tornato nella città vecchia. Mentre la vita si è spostata interamente sull’altra riva del fiume, lui è rientrato nella sua vecchia abitazione, demolita dalla guerra, ma ricostruita dalle Ong. «Qui è tutto distrutto, ma io non ho i soldi per comprare una nuova casa dall’altra parte del fiume», spiega, mentre tiene stretto tra le mani il suo rosario islamico con lo sguardo perso tra le case diroccate. «Quando l’Isis ha invaso la città, sono subito scappato. Uccidevano chiunque si avventurasse fuori casa, volevano imporre la sharia. Non è l’islam che conosco», assicura, spiegando che tutti quelli che sono rimasti avrebbero voluto seguirlo ma non hanno potuto per paura di essere uccisi. La realtà è diversa: migliaia di musulmani sono rimasti a Mosul vedendo nell’Isis non un gruppo di fanatici assassini, ma un esercito che avrebbe dato loro una rivincita sulle angherie del governo sciita. «Tutti qui odiamo l’Isis», continua Mahmoud, «durante la guerra finale hanno usato i civili come scudi umani, ma il governo ha bombardato lo stesso. A loro non importa se moriamo tutti e infatti non ha fatto nulla per ricostruire le nostre case». Mahmoud è felice di essere tornato, c’è solo una cosa che gli manca: «I cristiani. Sono nostri fratelli, sono persone eccellenti e io vorrei che tornassero. Spero che la visita del Papa li incoraggi a rientrare qui: noi li aspettiamo».

Città spopolata
Purtroppo, è molto difficile che il desiderio di Mahmoud si realizzi. Nel 2003 a Mosul, sede dell’Arcieparchia dei siro-cattolici, vivevano 45 mila cristiani, serviti da 15 parrocchie e 82 sacerdoti. Ma una violentissima campagna di omicidi e rapimenti di cristiani, seguita dall’invasione dell’Isis nel 2014, che ha fatto di Mosul la capitale del suo Califfato, ha spopolato completamente la città. Oggi sono tornate appena 50 famiglie, servite da un sacerdote e una chiesa.
Ricostruire la fiducia sarà durissima, soprattutto perché le ferite inferte dall’Isis ai cristiani sono ancora vive nella loro carne e nelle pietre delle loro chiese. La chiesa siro-ortodossa di san Efrem ne è un triste esempio. Lo scheletro della chiesa consacrata nel 1989 si trova sulla riva sinistra del Tigri, nella parte della città meno danneggiata e dove si concentra la stragrande maggioranza della popolazione. L’esercito iracheno che la sorveglia ci permette di visitarla dopo una lunga contrattazione e solo perché siamo cattolici venuti da Qaraqosh. Del bell’edificio è rimasto solo le scheletro in cemento: il presbiterio, al pari delle vetrate, è stato completamente sfondato. A terra giace ancora l’altare fatto a pezzi e dietro le rovine si intravedono le case dei quartieri circostanti.
«Questo è l’Iraq»
L’Isis, con il suo sadico accanimento anticristiano, ha fatto di questa chiesa un deposito di bombe e due di queste giacciono ancora a terra, incustodite. Su una colonna è visibile lo stemma dello Stato islamico, che qui aveva installato un centro di comando. Le macerie non sono state rimosse, il pavimento è un tappeto di calcinacci e i fili dei lampadari attaccati al soffitto dondolano al vento. Dall’alto della cupola, un celestiale Cristo benedicente che si staglia sull’azzurro del cielo costellato di stelle, miracolosamente intatto, guarda in basso lo scempio.
Anche l’oratorio, costruito sotto la chiesa, è stato occupato e adibito a prigione femminile. «Questa è proprietà dello Stato islamico» si legge sui muri. Un’altra scritta parla del successo dei jihadisti «secondo la volontà di Dio». Non è andata così. Vestiti, telefoni e conserve di frutta ricoperti di polvere si mischiano sul pavimento alle pagine dei libri di inni che i giovani cristiani venivano qui a cantare. La vista dello sfacelo è così cruda che un’esclamazione esce spontanea: «È incredibile». «Credici», risponde gelido il soldato dell’esercito iracheno che ci accompagna. «Questo è l’Iraq».

Magari altri cristiani torneranno
Ma si sbaglia. L’Iraq non è solo questo. La chiesa di Al Bishara a Mosul è l’unica rimasta aperta in città. Da fuori, le mura alte e il portone robusto in ferro battuto bianco la rendono più simile a una caserma inespugnabile che a una chiesa, ma la sicurezza è un bene non barattabile in città. A fianco delle due grandi croci dorate, c’è un’iscrizione in arabo che ha dell’incredibile, ripensando a tutto ciò che i cristiani hanno subito in questa città: «Chiesa di Al Bishara per i siro cattolici e i musulmani».
La chiesa, come tutte le altre devastate dall’Isis, è stata rinnovata da poco. Qui incontriamo Ammar, uno dei pochissimi cristiani rientrati in città. Ha 26 anni e lavora per la parrocchia. «Abbiamo sempre vissuto in questa parte della città e non avevamo i soldi per comprare un’altra casa, quindi siamo tornati qui». La sicurezza in città ora è garantita, assicura, ma preferisce non farsi fotografare. La prudenza non è mai troppa. «Prima dell’Isis la chiesa era strapiena alla domenica. Ce n’era così tanta che dovevamo farla sedere fuori, nel cortile. Adesso ci sono al massimo 40 persone». I cristiani infatti «hanno paura di tornare. Ci sono state troppe uccisioni, troppi rapimenti negli ultimi anni». Con i musulmani il rapporto è tornato sereno, afferma, e tutti aspettano la visita del Santo Padre: «Se la visita andrà bene, tutto il mondo vedrà che ora la situazione è cambiata, che ora c’è sicurezza. Così magari altri cristiani torneranno qui a Mosul. Questa è una visita importante per tutto il paese».
Pace, perdono, amore
Nel cortile della chiesa l’unico sacerdote rimasto in città, e che non riusciamo a incontrare perché impegnato a preparare la visita del Papa, padre Raed Adel, ha voluto costruire un monumento. In un’aiuola paradisiaca un grande razzo nero, che rappresenta la furia dei jihadisti, si conficca nel terreno e sprigiona scintille, realizzate con aste bianche, sormontate dalle parole: “Pace”, “Amore”, “Perdono”. «È così», conclude il giovane Ammar. «Noi cristiani di Mosul abbiamo già perdonato».
Foto © Tempi
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