Il nuovo autoritarismo dal basso degli artisti che diventano censori

Di Piero Vietti
06 Febbraio 2022
Il caso di Neil Young contro Joe Rogan e Spotify è solo l'ultimo esempio di "censura laterale" che arriva da chi un tempo era per la libertà di parola e contro l'establishment, scrive l'ex Mumford & Sons Winston Marshall
Neil Young in concerto a Londra nel 2014
Neil Young in concerto a Londra nel 2014 (foto Ansa)

Mentre l’Italia aveva le polemiche che si merita, quelle su Sanremo, il resto del mondo trovava il tempo di indignarsi per le castronerie di Woopi Goldberg sull’Olocausto – seguite dal solito teatrino di accuse, scuse, censura e controscuse – e per la rivolta di un gruppetto di anziani cantanti guidati dalla leggenda del rock Neil Young contro Spotify.

L’aut aut di Neil Young

Il cantautore canadese ha chiesto alla piattaforma streaming di scegliere tra avere le sue canzoni oppure ospitare il podcast di Joe Rogan, reo di avere dato voce, in alcune puntate, anche a personaggi scettici sull’utilità dei vaccini, pur non essendo lui un no vax. Poiché anche il mercato ha una sua moralina, e non è quella (altrettanto “ina”) di Neil Young, Spotify ha scelto di tenere Joe Rogan, di fargli promettere di stare più attento agli ospiti e di mettere un vago avviso di “non scentificità” al popolare podcast.

Neil Young è andato con la schiena dritta su Apple e Amazon Music (là dove le due società non brillano certo per l’estrema tutela dei diritti e della libertà di espressione), è stato seguito da Joni Mitchell, Crosby Still & Nash e altri, e ovviamente è iniziato un dibattito sui limiti della libertà di parola in tema di vaccini e sull’opportunità di dare voce a chi porta avanti tesi no vax.

L’autoritarismo dal basso

Fuori dal merito del dibattito sui vaccini, però, è interessante notare nella vicenda che ha coinvolto Neil Young un ribaltamento significativo, ben inquadrato da Winston Marshall su Common Sense. Un tempo, scrive il musicista ed ex componente della band Mumford & Sons, e oggi conduttore di un podcast dedicato alla musica, la censura agli artisti arrivava dall’alto: si pensi all’Unione Sovietica che permetteva alle band di suonare dal vivo soltanto se almeno l’80 per cento dei loro testi era stato scritto dall’Unione dei compositori di Stato, o ai vari comitati governativi che fino agli anni Novanta anche in occidente hanno censurato e fatto riscrivere canzoni.

«Ma nel 2022 la censura non è opera dei governi», osserva Marshall. «Qualcosa di simile a un autoritarismo dal basso è diventato la norma. Forse si potrebbe chiamare “censura laterale”. Sono gli stessi artisti che fanno fuori altri artisti, o almeno ci provano». È il caso proprio di Neil Young, e degli altri che lo hanno seguito abbandonando Spotify. La piattaforma di streaming è un’azienda privata, può decidere chi ospitare e chi no, ma la campagna iniziata da Young «è una chiara presa di posizione contro il principio culturale della libertà di parola». Un conto infatti è combattere per le proprie idee, un altro chiedere che quelle altrui vengano censurate.

Quando Marshall lasciò i Mumford & Sons

Curioso poi che gli animatori della rivolta siano tutti artisti “liberali”, nota Marshall. Eppure «come potrebbe un artista creare senza libertà di parola? Come si potrebbe essere artisti avendo paura che dire qualcosa che non piace a un altro ci farà espellere dalla stessa piattaforma che ci consente di condividere la nostra arte?». Marshall ne sa qualcosa, per averlo provato sulla sua stessa pelle (Tempi ne aveva scritto qui). A marzo dell’anno scorso scrive su Twitter ad Andy Ngo, autore di Unmasked: Inside Antifa’s Radical Plan to Destroy Democracy: «Complimenti. Finalmente ho avuto il tempo di leggere il tuo libro importante. Sei un uomo coraggioso».

Il problema è che il libro di Andy Ngo racconta le violenze degli estremisti antifa di sinistra nelle proteste che hanno infiammato l’America sul finire della presidenza Trump: «Così facendo ho inconsapevolmente rotto con l’ortodossia del settore, secondo cui gli antifa non devono mai essere criticati, anche se si rendono protagonisti di molte violenze». A quel punto il danno è fatto: tutti i componenti dei Mumford & Sons vengono attaccati per quel tweet, le radio minacciano di non passare più le loro canzoni e lo stesso Marshall viene fatto fuori da un festival in cui avrebbe dovuto partecipare come dj, e condannato pubblicamente dagli organizzatori. «Avrei potuto rimanere nella band, ma avrei dovuto autocensurarmi, o mentire. Quindi me ne sono andato».

Orchestre multirazziali e pensiero unico sulla Brexit

Appena un anno prima, racconta, il suo gruppo incontrò a Londra dei produttori della BBC. I Mumford & Sons dovevano suonare in uno show accompagnati da un’orchestra. Tutta la preoccupazione dei produttori, però, era sui componenti dell’orchestra, che avrebbe dovuto essere multirazziale. «Pensavano che i musicisti non bianchi non avessero abbastanza talento? Non lo saprò mai. Perché, con mia vergogna, mi sono autocensurato. Sapevo che sfidare questo pensiero di gruppo progressista con idee liberali, come giudicare le persone dal del loro carattere piuttosto che dal colore della pelle, avrebbe portato problemi inutili». 

Marshall scrive e dice quello che molti sanno ma nessuno ammette: se sei un cantante o un musicista non importa quello che pensi, devi adeguarti a quello che l’industria musicale decide di anno in anno che è la nuova ortodossia, e «stranamente sempre dalla parte dell’establishment». La Brexit, ad esempio, era un tema su cui il popolo britannico era equamente diviso, ma l’unica visione socialmente accettabile tra i musicisti era quella contraria alla Brexit. Tra i pochi cantanti a favore, poi, i pochissimi con un peso internazionale non volevano comunque parlare pubblicamente contro l’Europa.

Non più artisti, ma «droni sovietici»

Un altro classico tema divisivo è il conflitto israelo-palestinese: «Se sei un musicista, devi schierarti contro Israele. Ci sono alcuni artisti dalla parte di Israele, ma la stragrande maggioranza si è allineata. Ho sentito in privato da ebrei del settore, anche ebrei critici nei confronti di Israele, che è un argomento troppo pericoloso per essere discusso. Quindi ci si autocensura». Chi ha il coraggio di esporsi sui “temi caldi” contro l’ortodossia dominante sono pochissimi, e chi lo fa – come Kanye West su Trump o la Rowling sui trans – viene attaccato e boicottato.

Sotto una tale pressione, dice Marshall, non c’è da stupirsi se gli artisti non si comportano da artisti ma da «droni sovietici». E se anche i più famosi si autocensurano, come non capire chi ha le spalle molto meno coperte? Una volta essere artista voleva dire essere liberali, contro la tradizione, contro l’autorità e l’ortodossia. Non stupiva che gli artisti sovietici fossero contro il potere, scrive Marshall, stupisce che le loro controparti occidentali facciano a gara per difenderlo.

Tornare a parlare in buona fede

Come se ne esce? «Tornando a parlare in buona fede, rifiutando la politica delle certezze preconfezionate e l’idea che il mondo sia diviso tra buoni e cattivi. E ricordando che, come diceva Solzenicyn, “la linea che divide bene e male trapassa ogni cuore umano”». Neil Young avrebbe potuto fare un suo podcast, ad esempio, portando altri argomenti: «Il nuovo principio progressista del less speech, parlare meno, è una filosofia che ha troppi aspetti in comune con i regimi più oscuri del passato».

Negli ultimi due anni, l’ex musicista dei Mumford & Sons ha notato che sul suo caso il mondo della musica si è diviso in due: da una parte quelli che in pubblico lo attaccavano, dall’altra quelli che gli dimostravano solidarietà in privato. «Io speravo che, se un certo numero di liberi pensatori fosse finalmente uscito dall’ombra, la cultura sarebbe cambiata».

Qualche giorno fa la Casa Bianca è intervenuta sulla lite tra Neil Young e Spotify per bocca del suo capo ufficio stampa, che ha incoraggiato la piattaforma di streaming a intraprendere ulteriori azioni nei confronti di Joe Rogan. «Forse siamo a buon punto per un ritorno della censura in stile sovietico», conclude Marshall. «Questa volta, però, la censura è sostenuta dagli artisti schierati in favore del pensiero ortodosso dell’establishment». 

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