Nei ‘nottambuli’ di Hopper l’autoritratto di un’attesa

Nighthawks (“Nottambuli”) è un olio del pittore americano Edward Hopper. Le sue opere paiono la traduzione su una tela dei libri di William Faulkner: gli stessi spazi immensi e desolati, la stessa solitudine di uomini che non sanno più nemmeno cosa domandare. Ma questo Nighthawks, in una cui riproduzione incappi per caso una sera sfogliando un libro d’arte, è uno di quei quadri in cui puoi cadere come in un pozzo buio e lasciato aperto, tale è la forza con cui ti attira dentro e non ti lascia più venire via.
Nighthawks è del 1942. è un angolo di una metropoli americana, di notte: la vetrina di un caffè semideserto, all’ora – lo capisci dalle strade vuote, dalla profondità del buio, e dal silenzio che ti pare fisicamente di avvertire – in cui anche i più incalliti nottambuli se ne vanno, e si chiude. Nell’oscurità della strada le luci del caffè sono livide e fredde come quelle di una sala operatoria, e gli uomini, dentro, paiono rigidi e inchiodati al loro posto come insetti in una collezione di entomologo. Il bagliore giallino della vetrina si riflette sulla città vuota attorno, in strisce giallastre dentro l’orbita cava di finestre dentro a cui non c’è nessuno. Dei tre avventori, uno ha bevuto troppo e davanti all’ultimo bicchiere, il cappello calato sugli occhi, aspetta di sentirsi dire che si chiude come il verdetto della sua totale solitudine. Gli altri, un uomo e una donna ben vestiti, pure tacciono, come due che hanno davvero finito di dirsi tutte le parole inutili possibili che si possono dire per tirare l’ora di dormire. Lei ha bei capelli, e le labbra accuratamente dipinte; forse aspettava per quella sera qualcosa di bello, che non è accaduto. Quanto al barista, è un ragazzo che s’affanna a sistemare il locale ; stanco della giornata dietro il banco passata a sorridere, accumulando mance e sognando ancora una improvvisa fortuna.
Tutti, nella luce spietata dei neon – mentre fuori si allungano le ombre della notte più fonda, e non c’è anima viva – appaiono bestialmente soli, quasi esemplari di un’umanità abbandonata messi in vetrina e osservati silenziosamente da uno sconosciuto, dal fuori. E pare già di avvertire il calare secco della saracinesca sul marciapiede, e la voce giovanilmente spietata del ragazzo del banco: «Si chiude!». Quei tre che si allontanano lentamente nel buio, ciascuno per una diversa strada. «Io non credo di avere mai dipinto una città americana – confessò Hopper – ho sempre cercato di dipingere me stesso». Autoritratto di una solitudine e un’attesa, dunque, quel caffè vuoto, e i suoi muti avventori. Così desolati, in una notte in cui – di ciò che senza nemmeno saperlo attendevano – nulla è accaduto. Ma proprio il dramma del locale vivisezionato dal neon sembra – a te, che ci sei caduto dentro – dire che quella struggente attesa è ciò che c’è di più vero, fra gli uomini. Ha scritto Romano Guardini: «Dentro ogni opera d’arte si dischiude qualcosa. Qualcosa s’innalza. Non si sa né che cosa, né dove, ma nel più profondo si sente la promessa».

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