Né guerre obamiane né bla bla onusiani. Con l’islam serve una ragione ratzingeriana

Di Luigi Amicone
13 Settembre 2012
Cosa può rendere possibile il mantenimento di un minimo di consuetudini umane pacifiche tra due mondi così radicalmente divisi nella concezione della vita? Benedetto XVI nella faglia che divide l'Occidente dall'islam

Il giornalista, scrittore e politico Magdi Cristiano Allam, firma oggi sul Giornale un appassionato e, diciamolo pure, infuocato editoriale sui fatti del Cairo e di Bengasi. Un editoriale che ci pone questioni gravi con toni e parole altrettanto gravi. L’ex grande firma del Corriere della Sera e di Repubblica, ci invita infatti, come prima cosa a considerare gli avvenimenti per quello che sono: in Egitto così come in Libia le autorità governative hanno fatto ben poco per evitare l’assedio alle ambasciate e lo scempio degli americani.
In secondo luogo, Allam ci prega di non chiudere gli occhi davanti alla realtà che ha reso e rende possibili stragi come quelle viste ieri nei telegiornali: c’erano persone normali, donne, giovani, anziani, nelle violente manifestazioni antioccidentali che abbiamo visto svolgersi nelle piazze egiziane e libiche, come altrove e di consueto, vediamo svolgersi dal Pakistan alla Nigeria.
Infine, l’ex musulmano Magdi grida la propria indignazione e si appella al nostro buon senso e coscienza, invitandoci a non nasconderci dietro i soliti comodi schemi di un islam “buono” e uno “cattivo”. In realtà, conclude Allam, «l’islam è incompatibile con la democrazia»: sono fatti storici oggettivi – parte di una biografia riconosciuta dallo stesso mondo musulmano – che il fondatore dell’islam, Maometto, ebbe più mogli (compreso una bambina di sei anni), fu un capo guerriero sanguinario e la sua “rivelazione” contiene dettami incompatibili con la libertà e i diritti umani.

Dunque, illuministicamente parlando, cioè nella prospettiva più cara al pensiero laico dominante a tutti i livelli in Occidente e coagulato nel mainstream della Grande Rete, dovremmo infine arrenderci all’evidenza che tra mondo libero e islam, tra democrazia e grande Umma, tra noi e loro, insomma, c’è un grande muraglia. La grande muraglia di una religione che per sua natura rende invalicabile l’estraneità, l’inimicizia, il conflitto tra persone e civiltà. In definitiva, la frattura fra sapere e credere, tra realtà e illusione, tra verità della vita così come emerge dall’esperienza e il Corano, libro di presunta “rivelazione divina”, troverebbero nell’islam la massima e insuperabile espressione.

In effetti “così è se vi pare”. Ma allora, domandiamoci: cosa potrebbe rendere possibile il mantenimento di un minimo di consuetudini umane pacifiche (dunque la prosecuzione dello scambio di relazioni, interessi, commerci, movimento di beni e persone) tra due mondi così radicalmente divisi nella concezione della vita di qua e della vita di qui all’Eternità? Lo ha reso e lo rende possibile, pensiamo, la ricerca di un bene, diciamo, una parola grossa, di una “felicità”, che consente di vivere il poco tempo dell’esistenza umana con una più possibile pace, serenità, benessere. Lo ha reso e lo rende possibile, al di là delle credenze, laiche o religiose che siano, quell’elemento proprio e distintivo dell’essere umano e che costituisce un marchio indelebile di tutta l’umanità: ogni uomo e ogni donna desiderano essere felici. A qualunque popolo, tradizione, latitudine o longitudine essi appartengano, c’è questo fatto che uomini e donne desiderano essere felici. Per questo centinaia di migliaia di cristiani, musulmani, animisti del sud del mondo si buttano in mare per cercare pace, lavoro e benessere sulle nostre sponde d’Occidente. Per questo centinaia di milioni di persone qualsiasi, dall’Occidente all’Oriente, cercano di mantenere un po’ di lavoro e benessere per poter continuare a vivere in pace nel mare della vita.

Perciò è vero, pretendere di dialogare con l’islam fuori da questo livello della questione può essere anche generoso. Ma infine è uno sforzo che si rivela inutile e patetico. Serve ai rappresentanti della comunità politica e religiosa internazionale per smussare e dissimulare i motivi di contrasto (è il caso di certo ecumenismo onusiano o delle ong che hanno come religione intrinseca quella dell’umanitarismo). Serve a oliare e ad accordarsi su interessi generali, materiali, reciproci (è il caso Obama e, in generale, l’attitudine occidentale con paesi come l’Arabia Saudita, a diritti umani zero ma a petrodollari e fantamiliardari). Ma in buona sostanza è un dialogo che rimane in superficie, non scalfisce la questione centrale che ci divide e, contrariamente a quello che in questi anni ha pensato il povero Obama con i suoi messaggi di apertura e amicizia a parole con l’islam, non sfiora neppure una sola delle questioni che dividono l’Occidente dal mondo musulmano. Possiamo forse discutere con i nostri morti e cambiare l’ordine delle cose che li portò a credere e a vivere, a fare l’amore e fare le guerre, secondo opinioni e usi diversi dai nostri contemporanei? Ovviamente no. Non si può spiegare agli avi che l’illuminismo è l’eterno rivelato e lo spirito della storia. Così come non si può convincere un vero musulmano che Maometto era un pacifista, un tollerante tutte le religioni, un Eugenio Scalfari che insegnava le virtù civiche e valorizzava il protagonismo della donna.

Dunque, che fare? Come imbrigliare il radicale e possente antagonismo che con il suo sonno della ragione e con gli improvvisi risvegli della sua religione che non sembra volere amici, ma solo sottomessi (e “sottomissione” è la traduzione letterale  di “islam”), ci insegue per convertirci con la forza dal giorno che Maometto lasciò il suo accampamento nel deserto, sguainò la spada e lanciò i suoi fedeli alla conquista del mondo? Non c’è che la guerra. Oppure, qualunque modo sia utile a scongiurarla, ma al tempo stesso sappia garantire sicurezza al mondo della democrazia e delle libertà.
In una metafora. Finché una tigre è un cucciolo la si può perfino coccolare. Quando è adulta e dall’aggressività possente, non c’è che tenerla a debita distanza o abbatterla se entra in casa tua. Fuor di metafora, per scongiurare il terreno su cui il “risveglio dell’islam” vuole portarci, e cioè la guerra – la guerra totale, la guerra senza pietà e senza considerazione alcuna dell’umano, la guerra così coerentemente inseguita dai terroristi di Al Qaeda e, ancora più esplicitamente, dai talebani afghani – non c’è che la convivenza e la frequentazione in forza di una ragione.
Tra parentesi: avete fatto caso che, imperterriti, dalle madrasse del Pakistan, continuano a sfornare gli stessi guerrieri che nel 1996 diedero origine all’unico stato al mondo che abolì la musica e gli aquiloni, la donna e le scuole, e che senza alcuna crisi sentimentale proseguono nello sgozzamento ad oltranza di donne, vecchi e bambini, colpevoli soltanto di trovarsi nel posto sbagliato del mondo?

La ragione è quella che ci indica il professor e papa Ratzinger. Infatti, dove sta la forza della ragione in un viaggio come quello – pericolosissimo – di Benedetto XVI in Libano, che si svolgerà da domani a domenica, proprio al cuore della faglia che divide e, al tempo stesso, unisce Occidente e mondo musulmano? Sta nella drammaticità in cui indica questa sola via: convivenza e frequentazione in nome di Cristo. Perciò, l’irriducibile difesa di quella comunità cristiana che del dialogo non può fare a meno, non solo per opportunità, ma per definizione, è la sola speranza non guerrafondaia con cui l’Occidente può veramente stare di fronte all’islam.

È vero, queste storie di un islam pacifico e pacificamente dedito alle opere di misericordia, è una pietosa bugia che ci raccontiamo per dissimulare la nostra radicale incapacità a trovare un appiglio a fatti come quelli che, dal Cairo a Bengasi, dal Pakistan alla Nigeria, sconvolgono i nostri usi e convinzioni in materia di convivenza civile e di democrazia, di religione e di diritti umani. Così, invece di andare fino in fondo alla drammatica aporìa che ci apre l’islam, troviamo più comodo prendercela con le religioni in generale e, in particolare, con il cristianesimo. Volgendo così la lama dell’odio su noi stessi, cioè su quell’ideale di umanità che, pur con tutti i suoi limiti, ha reso possibile fino a oggi la nostra civiltà laica e democratica. È questo il relativismo di cui accusa l’Occidente Magdi Allam, con virulenza tipica e comprensibile, comprensibilissima, di quel ragazzo egiziano che era nato musulmano e che – grazie all’avveduta mamma che pure andò a morire in Arabia Saudita e non volle abbandonare la religione dei padri – incontrò nell’educazione di una scuola cattolica del Cairo, nell’amore di una ragazza ebrea, nel contrasto del suo cuore in subbuglio per la violenza di cui vedeva intessuti i rapporti nella religione che dominava nel suo ambiente, la vera fede che fece volare il suo sogno di libertà, amore, felicità.

@LuigiAmicone

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1 commento

  1. Robert Benson

    Bene, bello, ma concretamente che si fa?

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