Diciotto giorni con i feriti di Gaza. «Per non abbandonare questo mare di dolore»

Di Alberto Reggiori
30 Gennaio 2024
Il racconto di un medico italiano imbarcato sulla nave ospedale Vulcano della Marina militare al largo di Rafah. Le storie di Hamed, Adhija, Walid, medicando i corpi e le anime di chi ha perso tutto
Gaza

GazaDal 7 ottobre il conflitto in Palestina è il protagonista di notiziari e discussioni tra amici e colleghi; è un pensiero che si riaffaccia spesso come una nuvola nera davanti al sole portando un carico di impotenza: non poter far altro che parlarne mi provoca quasi fastidio, specie quando tutto si riduce a schieramenti virtuali così lontani dalla reale sofferenza umana. Chi è la vittima? Chi è l’aggressore? Tu da che parte stai? Da che parte sto: certamente per ora vicino a chi soffre, poi capiremo. Spesso l’impotenza e la banalità sono vinte solo dalla preghiera personale e silenziosa per la pace e soprattutto per il destino di chi piange o muore.

In maniera del tutto inaspettata una notizia del telegiornale mi aperto una prospettiva. Si informava che la nave ospedale Vulcano della Marina militare italiana era ormeggiata a qualche chilometro da Rafah, nelle acque egiziane di Al Arish, per una missione di assistenza ai feriti che defluivano dalla Striscia di Gaza. Da allora non ho smesso di pensare che, come medico, avrei potuto anche coinvolgermi personalmente, in fondo qualcuno me l’aveva fatto sapere ed aspettava una risposta. Perché dire no? Il desiderio che la mia vita sia utile non mi abbandona, è una esigenza che non vuole saperne di tacere. Devo proprio prendere posizione. In fondo non vale forse per tutti, ad ogni livello? Voglio essere utile!

Le carrozzine sul ponte

Parlo con mia moglie e qualche amico, mi sostengono, insomma non è una cosa da pazzi. Mi decido e indirizzo qualche mail fino a che la risposta mi porta alla Fondazione Francesca Rava di Milano che da 20 anni realizza iniziative umanitarie in Italia e nel mondo a favore di donne e bambini. Sono loro che gestiscono il team di professionisti sanitari non militari, medici ed infermieri, che salirà sulla nave. Un colloquio a Milano mi chiarisce le condizioni, vengo accettato e se sono contento vuol dire che va bene così. Finalmente si parte e dopo un ruvido e rumoroso volo militare ora con altri quattro volontari della Fondazione Rava sono qui sulla nave ospedale Vulcano ormeggiata sulla costa egiziane, ad osservare questo mare increspato, a qualche decina di chilometri dalle zone di guerra, dove nel buio si scorgono inquietanti bagliori.

È ormai sera, il momento più sereno del giorno, per un attimo ogni ansia si dilegua quando il sole tramonta dietro al ponte degli elicotteri e i profili dei bambini palestinesi ricoverati che giocano con bambole o con palloni di stoffa risaltano neri contro il cielo arancio. Gli infermieri nel pomeriggio hanno spinto le carrozzine sul ponte per far respirare ai pazienti questa aria trasparente e far loro vedere il mare. Il tenente medico dice che è un ottimo moral booster per persone che sono arrivate anemiche e malnutrite per la carestia diffusa nella Striscia.

Senza la gamba sinistra

È il momento della cena e delle terapie, delle telefonate, spesso senza risposta, ai propri cari ancora dentro la Striscia di Gaza oppure chissà dove, dal Qatar all’Europa. I mediatori li aiutano con una tessera telefonica o con un cellulare. Anche i militari italiani, ormai qui da qualche mese, escono sul ponte dove i cellulari prendono e chiamano casa per fare gli auguri di compleanno alla madre anziana, per collegarsi in video con i figli piccoli e mandare baci alla moglie.

Poi i pazienti vengono riaccompagnati nell’area di degenza, nei loro letti puliti, mentre i più piccoli cominciano finalmente a sorridere quando il personale italiano regala loro giochi, li lava e li veste con il pigiama di Spiderman e di Frozen. Ma è anche il momento della nostalgia e delle tristezze, l’inferno da cui sono appena sfuggiti esiste ancora, li ha seguiti e non li abbandona così facilmente, pronto a rifarsi vivo nei sogni e negli incubi della notte.

Entro nella loro stanza, nel letto più a sinistra è semiseduto Hamed, 15 anni, ma atteggiamento da adulto; è arrivato qui solo, ha perso la mamma ed i fratellini sotto le macerie; il padre che lo voleva accompagnare è stato fermato alla frontiera di Rafah dove israeliani ed egiziani lasciano uscire esclusivamente donne e bambini feriti con criteri che a noi sfuggono; ha raggiunto la nostra nave su un’ambulanza egiziana quindi ricoverato a bordo. Hamed ha la gamba sinistra amputata, e la destra fratturata; qui nell’efficiente sala operatoria di bordo gli abbiamo chiuso il moncone che era stato lasciato aperto come un libro in chissà quale ospedale ed in chissà quali condizioni d’urgenza. Nella Striscia i medici applicano evidentemente la regola primaria della chirurgia di guerra “Damage control surgery”, cioè intervengono solo per salvare la vita, non per risolvere completamente il problema; questione di risorse e di priorità.

Qualcosa che abbiamo perso

Tento di immedesimarmi in lui e in quello che prova ma non riesco proprio, rinuncio quasi subito. Cosa possa sentire un ragazzino che ha perso quasi tutta la famiglia, la casa, una gamba, non è immaginabile; ieri sera una crisi di panico non lo faceva respirare, siamo corsi al suo letto, abbiamo capito, lui è stato circondato di attenzioni, adesso sembra tranquillo. I ripetuti tentativi di contattare il padre sul cellulare finalmente danno qualche risultato, gli ripete di resistere, di non mollare, è quasi un comando. Lui si riprende subito. La figura paterna qui è indiscutibile ed insostituibile, è il modello per la vita. Forse qualcosa che noi abbiamo perso.

Thank you, thank you!

Adhija è un’insegnante di scienze naturali di 44 anni che ha subito un trauma alle gambe, per fortuna leggero, riportando ferite non complicate. Ma prima di tutto è una madre. È salita a bordo con i due figli di 5 e 7 anni, pallidi, spaventati e poco nutriti. Mi racconta nel suo stentato inglese che il marito ha perso tutta la sua famiglia, oltre dieci persone, per un missile che ha centrato la casa; lei con i due figli era fuori.

Dice che ama Gaza dove è nata, ma adesso non vuole saperne di tornarci, dice che suo marito se la caverà mentre i suoi figli sono troppo preziosi per metterli a rischio, sono venuti al mondo dopo quattro aborti consecutivi, tanto desiderati. No, no, dice, non voglio perderli. Finché non ci sarà pace non se ne parla; ha ottenuto di essere evacuata con loro in Qatar, domani il suo sogno si avvera.

I bambini saltano sul letto alla notizia che il giorno dopo voleranno. È la prima volta per tutti. Le medico l’ultima volta le gambe, poi lei mi saluta e mi ringrazia, mi mostra sul cellulare foto della sua vita serena prima del 7 ottobre, chiede di mostrarle la fotografia della mia famiglia che commenta con stupore, dice che ha incontrato persone molto gentili qui, sia militari che civili, che io potrei essere suo padre e l’ho trattata come una figlia. Mi prende un po’ in contropiede, le porgo vigorosamente la mano ripetendo Thank you, thank you! mentre i figli mi danno un cinque.

La bocca piena di terra

Walid, 19 anni, ci dice che durante la notte si è svegliato nella sua casa di Gaza sentendo il ronzio malvagio dei droni, da loro chiamate “zanzare”, temuti da tutti come annunciatori di morte; nella sua stessa stanza dormivano su materassi improvvisati altri sette parenti; un lampo ed un boato hanno abbattuto due edifici adiacenti e coinvolto anche il loro. Si è trovato tra le macerie, due piani più in basso, ha avuto la prontezza di estrarre un braccio dalla palude di sassi per rendersi visibile. La bocca piena di terra e polvere di cemento gli impediva di parlare e lo stava soffocando, sentiva di avere i minuti contati, poi i soccorsi lo hanno raggiunto e allora qualcuno ha spento il sole.

Il giorno seguente il risveglio in ospedale con ferite ed ustioni già coperta da bende. L’hanno informato che dei sette parenti nella stanza con lui ne sono rimasti vivi tre. Gli altri sono passati dal sonno alla morte. Adesso si chiede come farà a continuare i suoi amati studi di ingegneria, l’università è sparita. I suoi genitori sono rimasti dentro la Striscia in un campo di tende. Anche per lui dopo qualche giorno decolla un aereo che gli schiuderà una nuova vita in Qatar, quando li rivedrà?

Ognuno dà il meglio di sé

I sanitari militari mi raccontano di una giovane donna a cui tutta la nave era particolarmente affezionata, arrivata con ferite orribili ed arti spariti, unica superstite di una famiglia di 22 persone, trattata da tutti come una sacra reliquia, dopo il trattamento chirurgico iniziale e giorni di terapie sulla nave, era stata trasferita in un ospedale egiziano con qualche speranza. Tutti facevano il tifo per la sua guarigione anche se lei desiderava solo morire per raggiungere la propria famiglia, alla fine qualcuno da lassù l’ha esaudita.

Nei giorni seguenti arrivano in banchina ambulanze gialle, con pazienti barellati sino alla tenda del triage, tramite gli interpreti si ascolta la loro storia, si raccolgono i dati essenziali e poi vengono accolti sulla nave; chi riesce a camminare sale la lunga scaletta, gli altri sono issati con barella e verricello, come fossero recuperati in alto mare. Per qualcuno si attiva la sala operatoria per ferite e frammenti metallici ritenuti, per altri si impostano terapie e medicazioni giornaliere. Tutto il personale medico, militare e civile si prodiga con una generosità sincera, nessuno si risparmia, in questi momenti ognuno dà il meglio di sé.

Un cuore vivo che comunica speranza

Ciò che è accaduto ai pazienti sembra scritto dalla stessa mano: nel corso di una giornata di guerra, triste come tante altre ma destinata ad essere unica, con la violenza che si è impadronita delle loro vite, improvvisamente esplode un bagliore ed un tuono che li tramortisce. Poi il buio. Qualcuno non si risveglia più, forse è più fortunato degli altri. Chi si risveglia non si ricorda nulla, ma si trova in un ospedale frenetico o circondato da soccorritori e famigliari che urlano tra le macerie dell’edificio crollato.

Con il riprendere della coscienza si svela quello che la grande luce ha portato via: una gamba o un braccio, una porzione di tronco. Shock che anestetizza i sensi e le sensazioni, è un film o la vita? Corpi estratti da queste trappole di macerie e rottami, un marito ha identificato sua moglie tra le macerie, ha tirato la sua gamba che gli è rimasta tra le mani, ferite sommariamente medicate, dolore che comincia a farsi sentire, corse in ambulanza o su qualche barella traballante. Domande angosciate sulla sorte dei propri cari. Poi gradualmente la coscienza riprende e per ognuno inizia una diversa via crucis di cui non si conosce né tragitto né fine. Corpi e anime indissolubilmente lacerati e segnati, esiste una vita prima della grande luce ed una dopo.

La solidarietà è ancora viva

I diciotto giorni trascorsi qui, dormendo in cabina con altri tre medici, con i ritmi disciplinati della vita militare, del giro medico, della mensa, dell’assemblea al mattino con il programma della giornata, forse fanno una piccola differenza in termini risultato per i pazienti che abbiamo trattato ma certamente hanno per me un significato enorme. Condivisione è il posto giusto. Ringrazio anche le persone conosciute, molte eccezionali per la loro dedizione e generosità, donne e uomini che hanno ancora un cuore vivo. Questo comunica speranza.

Guardando il mare ventoso penso che questa missione di assistenza dimostra che in Italia è ancora viva la solidarietà e la pietà tra le persone e tra le istituzioni; continuerà ancora per qualche giorno, poi troverà modi diversi per garantire assistenza e cure ai pazienti, soprattutto bambini. Non si vuole abbandonare questo mare di dolore. E non si può nemmeno smettere di chiedere salvezza per tutti.

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