Tentar (un giudizio) non nuoce

Navalny e la sacralità della vita

Di Raffaele Cattaneo
24 Febbraio 2024
Un regime che disprezza così la vita dei suoi avversari e tacita ogni potenziale oppositore attraverso la paura e il terrore, non può avere giustificazione alcuna
Fiori in memoria di Aleksey Navalny davanti all'ambasciata russa di Berlino, Germania, 21 febbraio 2024 (Ansa)
Fiori in memoria di Aleksey Navalny davanti all'ambasciata russa di Berlino, Germania, 21 febbraio 2024 (Ansa)

Fra poco qualcuno ci dirà che Navalny è morto di raffreddore, e sono pronto a scommettere che molti ci crederanno… Eppure, la morte di Aleksei Navalny, principale oppositore russo di Putin, scomparso nel carcere di Kharp, nella Siberia del Nord, suscita molti interrogativi, dunque, ciascuno di noi non può ignorare come reagisca la propria coscienza di fronte a questi fatti. Navalny, principale oppositore politico di Putin, dopo essere rientrato in Russia da sopravvissuto a un tentativo di avvelenamento da Novichok, un tipo di nervino usato dai servizi russi, era recluso nella colonia penale IK-3, un angolo remoto dopo il circolo polare a oltre 2000 chilometri da Mosca conosciuto come “Lupo polare” per le temperature che arrivano a -40, tenuto in isolamento con le scuse più banali per oltre 300 giorni, dopo esser stato condannato nel 2021 a 19 anni per le proprie idee e recluso sino ai primi di dicembre nella colonia penale a Vladimir, a 200 chilometri da Mosca.

Voglio dire subito che la mia coscienza urla di fronte a questi fatti e che nessuna ragione di calcolo, di convenienza o di opportunità potrà farla tacere! Un regime che disprezza così la vita dei suoi avversari e tacita ogni potenziale oppositore attraverso la paura e il terrore, non può avere giustificazione alcuna: non solo è contro le più elementari regole di libertà e democrazia, ma calpesta i diritti umani più basilari, dunque va condannato senza riserve.

Difendere le proprie idee

Al di là della vicenda in sé, però mi interessa sottolineare ciò di cui è segno la drammatica fine di questo uomo che non ha rinunciato a difendere le proprie idee e mantenere alta la propria voce, nonostante fosse evidente che la sua condizione lo poneva su quel crinale che non distingue più tra vita e morte. Ebbene, vorrei fare un parallelismo, magari un po’ ardito, ma non insignificante, tra ciò che è avvenuto in Russia e ciò che sta accadendo in Palestina.

Nella scorsa settimana mi ha fatto molto riflettere la polemica tra il governo israeliano, con il suo premier Netanyahu, e il segretario di Stato del Vaticano, cardinale Pietro Parolin, che ricordo essere la massima autorità diplomatica della Santa Sede, l’equivalente di un Ministro degli Esteri. Un parallelo è possibile, ed io dico necessario, perché dietro queste due vicende si cela l’idea del rapporto con l’avversario, dell’azione che può essere messa in campo contro chi è ritenuto il nemico. La vicenda di Navalny rappresenta plasticamente l’idea di come il Potere può muoversi al cospetto di un avversario politico ritenuto troppo scomodo. È nella sua facoltà, imprigionarlo nell’angolo più recondito ed invivibile e forse può assumersi anche l’onere di eliminarlo fisicamente, come, del resto, è già avvenuto con altri oppositori in Russia, ed era già stato tentato nei confronti dello stesso Navalny.

Sacra e inviolabile

In fondo, questo approccio non è molto diverso dalla reazione del governo israeliano a fronte di quella che è certamente stata un’aggressione ingiusta e inaccettabile che merita la condanna più ferma e senza tentennamenti di alcun tipo. Al tempo stesso però è lecito porsi la domanda: esiste un limite alla reattività, quando si subiscono ingiustizie? Esiste un principio a cui appellarsi per rimarcare il senso di giustizia equitativa e all’idea di proporzionalità rispetto ad un attacco, per quanto brutale e barbaro, oppure hanno ragione coloro che affermano che l’unica soluzione è quella di sradicare e sconfiggere sino all’eliminazione fisica dell’ultimo nemico?

Questo è il punto che voglio evidenziare. Si può dire che una reazione è sproporzionata e quindi disumana e ingiusta? Sì, si può e si deve dire! Ma aggiungo un aspetto centrale: se non esiste un elemento trascendente, o perlomeno la consapevolezza che esiste una dimensione sacra e inviolabile della vita di fronte alla quale occorre fermarsi, allora si corre il rischio di seppellire con i morti anche quell’indisponibile che sta alla base di qualunque concezione di civiltà e addirittura di qualunque relazione umana.

Ebbene se si mette in discussione questa idea sacra e inviolabile, allora non resta che la barbarie del più forte. Chi ha il potere può tacitare qualsiasi voce scomoda nelle forme più efferate e chi dispone della forza militare o fisica può usarla senza limite per contrastare chi è ritenuto il nemico, reo della ferocia. Ma può essere solo l’atrocità e la barbarie la risposta umana ad altra atrocità e barbarie? Può essere questa la strada attraverso la quale costruire la giustizia e la pace? Credo che sia evidente a tutti che il percorso non può essere questo.

Occorre allora fare un passo in più, ossia riconoscere che la forza e il potere di cui disponiamo deve avere una misura. Essa si fonda nella sacralità della vita e in quel senso di giustizia e di proporzionalità, naturalmente iscritto, nel cuore di ognuno. Perdere di vista questa misura, può condurre ad esiti drammatici e senza vie d’uscita.

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