
Mucca pazza? 125 milioni di vaccate
“Mucca pazza”: dal punto di vista scientifico è un termine terribile ma, dal punto di vista giornalistico, terribilmente indovinato. Non per nulla la stampa, sul caso dell’encefalopatia spongiforme bovina, è letteralmente andata a nozze. E dopo un breve periodo di silenzio, settimana scorsa i quotidiani sono tornati sul tema: «Mucca pazza potrebbe uccidere 3,000 inglesi», così il Corriere della Sera titolava un pezzo che rispolvera un dato in realtà vecchissimo, una delle prime stime epidemiologiche di massima (basate su calcoli matematici, ma che in questo momento non hanno riscontri reali). E il giorno seguente dedicava un pezzo al ragazzo francese «Arnaud, morto di mucca pazza a 19 anni». Risultato di questi continui allarmi: una vera e propria psicosi con conseguenze pesanti per il mercato della carne nazionale (secondo Confcommercio crollato del 70%) e la comparsa di manifesti pubblicitari di questo tenore: «per le nostre mucche la verdura non è solo un contorno»; «le nostre mucche preferiscono paglia a fieno. E ogni tanto si fanno una margherita». Tuttavia molto di quanto è stato detto sulla Bse appartiene al regno del mito. Parola di Massimo Castagnaro, Ordinario di Patologia Generale e Anatomia Patologica dell’Università di Padova.
Tutto quello che non vi hanno detto sulla Bse
«Le vacche che si ammalano di Bse (Encefalopatia Spongiforme Bovina) non sono pazze, sono vacche con una malattia neurodegenerativa in cui il cervello viene progressivamente distrutto. La Bse appartiene ad un gruppo di malattie dell’uomo e degli animali chiamate encefalopatie spongiformi trasmissibili (EST). Con il termine di “encefalopatia” si indica il fatto che non sono patologie infiammatorie (encefaliti), ma su base degenerativa, come il mordo di Parkinson e di Alzheimer. “Spongiforme” indica invece l’aspetto più caratteristico dal punto di vista neuropatologico: all’esame microscopico i cervelli infettati degli animali e degli uomini presentano dei buchi otticamente vuoti che, sommati fra di loro, determinano un aspetto a spugna, spongiforme appunto. Il terzo aggettivo, “trasmissibile”, è forse quello più importante. Tutte le altre patologie neurodegenerative non sono trasmissibili, cioè non si è in grado, nemmeno sperimentalmente, di trasmettere la malattia ad un altro soggetto inoculandogli parte del cervello di un individuo ammalato. Le EST quindi implicano la presenza di un agente infettante in grado di riprodurre la malattia. Ma trasmissibile non vuol dire contagioso: molte di queste malattie, come ad esempio la Bse, non si trasmettono naturalmente da un individuo all’altro, in quanto “naturalmente” non vi è possibilità di contatto tra organi “infetti” di un individuo e altri individui… Nell’uomo la malattia più caratteristica appartenente a questo gruppo è la malattia di Creutzfeldt-Jacob (CJD), descritta attorno al 1920. Si tratta di una demenza che progredisce rapidamente e dopo un periodo medio di 3-4 mesi, l’individuo colpito muore inesorabilmente. Occorre sottolineare come l’incidenza della CJD sia più o meno analoga in tutti i paesi del mondo, indipendentemente dalla presenza o meno delle altre patologie animali. Ad esempio, l’Australia, dove non esiste la Bse, ha la stessa incidenza del CJD dell’Italia. Esiste poi quella variante della CJD (vCJD), che potrebbe essere associata alla Bse. Purtroppo averla chiamata “variante di CJD” è stato un grosso errore: la differenza tra i due termini è così piccola che troppo frequentemente le due definizioni vengono utilizzate in modo sinonimo. Quanti non hanno visto sui giornali titoli di persone morte di mucca pazza in Italia? Peccato che in Italia casi di vCJD non ce ne sono stati! Gli unici casi di vCJD sono stati descritti in Gran Bretagna (97), in Francia (3) e in Irlanda (1).
Dove, come e perché nasce “mucca pazza”
La Bse è una patologia strettamente europea. Quanti bovini ha colpito? In Europa potremmo tracciare quattro livelli epidemiologici (dai O.I.E.). Il primo livello, quello più grave, è osservabile in Gran Bretagna dove sono stati descritti poco meno di 180mila casi clinici. Un’osservazione generale: se il tempo medio di incubazione della Bse è di 5 anni e si sono descritti 180mila casi clinici, significa che il numero di bovini infetti allo stadio sub-clinico è molto superiore (forse qualche milione). Nella seconda fascia includiamo paesi che hanno presentato qualche centinaio di casi (Irlanda, Portogallo, Francia, Svizzera) e altri paesi in cui l’incidenza della malattia sta progressivamente aumentando, ragione per cui ci si può aspettare che entro breve raggiungano questo livello (Germania e Spagna). Nella terza fascia consideriamo paesi con qualche caso (fino a poche decine) quali Italia, Olanda e Belgio. Nella quarta fascia includiamo paesi esenti da Bse. In Inghilterra, dopo la descrizione del primo caso (1985), si è assistito ad un aumento impressionante della malattia che ha raggiunto il suo picco alla fine del 1992 – circa 40.000 casi prevalentemente tra le vacche da latte. I ricercatori inglesi osservarono che tutte le aziende in cui compariva la Bse avevano utilizzato come integratore proteico le farine di carne e ossa, prodotti derivati prevalentemente dalla trasformazione di parti di ovini e bovini non utilizzate per il consumo umano. Le farine di carne vengono somministrate nella percentuale dell’1%-2% della razione giornaliera per sostenere elevate produzioni di latte. Non è quindi ragionevole dire che il problema della Bse è nato perché abbiamo fatto diventare le vacche animali carnivori. Inoltre il bovino è già un “carnivoro” in quanto nel rumine sono presenti microrganismi appartenenti al mondo animale (i protozoi ruminali), fonte di proteine importanti per il suo metabolismo. Se proprio vogliamo spaccare il capello in quattro, possiamo dire che il bovino è sempre stato carnivoro, ha sempre ingerito proteine animali. In ogni caso, visto che tali farine si sono dimostrate il mezzo (non la causa) di trasmissione della Bse, sono state vietate per l’alimentazione dei bovini nel 1988. Nella stessa Gran Bretagna, solo un anno più tardi, nel 1989, e a scopo precauzionale, tutti gli organi del bovino considerati a rischio infettivo sono stati banditi dall’alimentazione umana. Se la Bse nei bovini ha un tempo medio di incubazione di circa 5 anni ed è stata descritta nel 1985-1986, i primi bovini devono essersi infettati intorno al 1980. Conclusione: dal 1980 al 1989 gli inglesi hanno potuto consumare tutti gli organi a rischio. Quanti bovini hanno mangiato? Secondo stime inglesi, circa 1 milione di capi infetti (da 800.000 a 1.200.000). Un dato che occorre tenere in considerazione per valutazioni comparative con la situazione italiana.
Il vero problema delle farine animali
Perché è scoppiata la Bse, da dove proviene? Perché si è originata in quel momento in Inghilterra? Circa il 70% del costo di produzione delle farine di carne è legato all’energia utilizzata per sterilizzarle. Per risparmiare su questa energia, in Inghilterra alla fine degli anni ’70 vennero ridotti i tempi e le temperature di produzione. Si suggerì inoltre di eliminare un solvente ritenuto potenzialmente tossico. Dopo qualche anno è comparsa la Bse. Questo è un dato importante: la relazione tra il cambiamento delle modalità di produzione (“rendering”) delle farine di carne e la comparsa del morbo. Ma cos’è che l’ha provocato? Si sono sentite stupidaggini di ogni tipo, anche da personaggi di grande rilevo mediatico. Ma le ipotesi ragionevoli sono due. Secondo la prima, un ceppo di scrapie, malattia dell’ovino presente da sempre in Inghilterra, a causa del cambiamento delle procedure di produzione delle farine, ha fatto un salto di specie passando dall’ovino al bovino. L’altra possibilità è che la Bse sia sempre esistita a un livello di incidenza non diagnosticabile. È possibile allora che bovini morti per forme di Bse non diagnosticate siano da sempre entrati nella composizione delle farine di carne. Il cambiamento del processo di produzione ha poi permesso livelli d’infettività sempre più elevati fino al superamento di un valore soglia critico. Comunque, una volta sospese le farine di carne, la malattia è scesa. Le farine di carne rappresentano infatti l’unico mezzo di propagazione del morbo tra gli animali. Non esistono prove della contagiosità (trasmissione orizzontale) da bovino a bovino della Bse. Quindi, scientificamente parlando, non c’è ragione di abbattere tutti gli animali quando si è in presenza di un caso di Bse in un allevamento. Uno dei primi problemi ad essere affrontati, in vista di una possibile trasmissione all’uomo, è stato quello dell’individuazione dei tessuti infetti nel bovino. Per la mancanza di test sufficientemente sensibili, questa viene effettuata col “mouse bioassay”: si inocula il tessuto nel cervello di una linea genetica sensibile di topo e se il topo si ammala il tessuto viene ritenuto infetto. È evidente che si tratta di esperimenti costosi e impegnativi. Per farla breve, in condizioni naturali gli unici organi infetti nel bovino sono il cervello, il midollo spinale e la retina, a causa delle connessioni con il sistema nervoso centrale. Il latte non è infetto, la carne neppure, così le tonsille e la milza. Come possiamo esserne certi? Li abbiamo iniettati nel cervello del topo e questo non si è ammalato. Si vede sperimentalmente. Ma la scienza non può assicurare nulla. Possiamo assicurare qualcuno che uscendo di casa non avrà un incidente stradale? E allora perché ci si chiede come possiamo essere sicuri che il latte non sia infetto? Non ne siamo “sicuri”: però prendendo il latte e iniettandolo nel cervello di un topo abbiamo osservato che non provoca la malattia: è questo il dato scientifico. Gli animali che possono ammalarsi venendo a contatto con questi tessuti infetti in condizioni naturali sono i felidi (87 casi naturali) e altri bovidi selvatici (alimentati negli zoo con farine di carne). Gli animali sperimentalmente sensibili in cui è stata provata l’infezione per via orale – e questo è importante per le decisioni prese rispetto alle farine di carne nell’alimentazione degli altri animali – sono il bovino, la capra, la pecora, il visone e i lemuri. La variante umana di Creutzfeldt-Jacob: cronologia di un caso mediatico La Bse come malattia nasce nel 1985, senza troppo clamore. Ma nel 1996 in Inghilterra compare nell’uomo una nuova malattia: la “variante” della CJD. Strettamente associata dal punto di vista epidemiologico alla Bse. La prima descrizione della vCJD si trova su un numero di Lancet nel 1996 e descrive 10 casi. In realtà ci sono 3-4 casi nel 1995, 10 nel 1996-1997, nel 1998 arrivano a 18, 15 nel 1999 finché nel 2000 diventano 27-28 e quest’anno nei primi due mesi si sono già contati 13 casi. Il neurologo che ha descritto i primi 10 casi rilevava alcune differenze tra CJD e vCJD. Ad esempio, mentre la CJD colpisce individui dall’età media di 60-65 anni, la vCJD si presenta in una età media di 27 anni; la durata della CJD è di circa 3-4 mesi, mentre la vCJD ha una durata media di 13 mesi; la maggior parte dei casi di vCJD era stata riferita allo psichiatra e non al neurologo e si trattava di casi curati per molto tempo come depressioni. A questo punto, sono stati eseguiti ulteriori studi sugli organi a rischio attraverso infezioni sperimentali nel bovino, utilizzando 100 grammi di cervello (da 10 a 100 volte la dose minima infettante) di un bovino infetto per via orale. Le nuove osservazioni segnalano infettività nell’ileo distale (intestino) già a 6 mesi e fino a 20 mesi – un dato che suggerisce due considerazioni: se vogliamo determinare l’infezione negli animali giovani dobbiamo cercare nell’ileo e non nel cervello; inoltre se sopra i trenta mesi ci sono più possibilità di osservare la malattia clinicamente, non è vero che non compaia sotto i 30 mesi. Inoltre l’agente eziologico, qualunque esso sia, risale lungo le vie nervose (mentre la positività che in un primo momento era stata registrata nel midollo osseo si deve a una contaminazione durante l’esperimento, tant’è che scompare a 40 mesi) e ciò rassicura su moltissimi punti; prima di tutto sul latte. L’infezione si diffonde tra ileo e cervello perciò non abbiamo possibilità di pensare che sia nel latte. E perché dovrebbe essere nella carne? Ci sono stati giornalisti che hanno scritto: con 100 grammi di carne ci s’infetta. Probabilmente potevano essere denunciati perché con la carne non s’infetta nessuno. Forse con il cervello sì, ma non con la carne. Però per riparare a una notizia del genere diffusa da un grosso quotidiano ci vogliono anni. Quando l’uomo della strada si accorge che tre persone hanno tre pareri diversi si attiene al più prudente: non consuma più la carne. Come è successo in Italia. Sul possibile contagio tra il bovino e l’uomo prove scientifiche dirette non esistono, ci vorrebbe un volontario disposto a mangiare 100 grammi di cervello infetto: se si ammalasse dimostreremmo inconfutabilmente che la Bse si trasmette all’uomo. Abbiamo però una serie di prove indirette che si basano sulle differenze e/o le analogie che possiamo osservare tra un topo infettato in seguito alla somministrazione di cervello di bovino con Bse e un altro infettato da cervello di uomo con vCJD. Se prendiamo 5 ovini ammalati di scrapie provenienti da 5 diverse parti del mondo e infettiamo per via intracerebrale delle linee pure di topi otteniamo 5 malattie diverse per tempo di incubazione, durata della malattia e lesioni che riscontriamo nel cervello. Al contrario, se prendiamo dei casi di CJD e ripetiamo la stessa operazione otteniamo un’altra malattia ancora. Se ripetiamo lo stesso esperimento utilizzando cervelli di bovini con Bse e cervelli di individui ammalatisi di vCJD otteniamo la stessa malattia in termini di tempo di incubazione, durata della malattia e lesioni cerebrali. E la stessa malattia viene prodotta nei topi con cervelli di gatto infetti da Bse. In sintesi, la possibilità del contagio tra bovino e uomo esiste».
Di Massimo Castagnaro
Ordinario di Patologia Generale e Anatomia Patologica dell’Università di Padova
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