
Morte di una bandiera
«No, non credo che il grande clamore sul caso di Piergiorgio Welby abbia avuto un’influenza infausta sui malati che vivono in situazioni simili. Perché chi è costretto a una grave sofferenza vuole vivere. Sempre. Invece penso che un’influenza l’abbia avuta sui sani, su di noi, sugli operatori, sui famigliari. Perché adesso mi capita sempre più spesso di incontrare parenti di persone indigenti che sono rosi dal dubbio: “Non farà mica la fine di Welby?”». Giuseppe Casale è il medico palliativista che fu contattato dall’associazione Luca Coscioni per prendersi cura di Piergiorgio Welby, il copresidente dell’associazione Luca Coscioni, malato di distrofia muscolare e morto alle 23.40 del 20 dicembre 2006. Il caso è finito su tutte le pagine dei giornali italiani. Welby ha chiesto al presidente Piergiorgio Napolitano di prendere in considerazione la sua volontà di essere ucciso. Secondo Casale, oggi, dopo il lungo dibattito sulla liceità o meno dell’atto, ciò che rimane è questo dubbio, depositatosi nell’animo non dei sofferenti, ma dei non sofferenti. «Proprio in questi giorni assisto un paziente, ex giornalista, di sinistra, un uomo colto e assolutamente lucido. Gli ho chiesto se farebbe la stessa scelta. Mi ha ribattuto: “e perché? Posso leggere e scrivere. Sono vivo, no?”». Secondo Casale il problema è degli “altri”, «di quelli che stanno vicino ai malati, oggi più angosciati. Capita spesso di sentire dei terminali affermare per stanchezza “non vedo l’ora che sia finita”. Ma tra questo lamento e il richiedere l’eutanasia c’è uno spazio infinito. Invece, dopo Welby, chi fino ad oggi li assisteva amorevolmente è preso dall’ansia che, forse, quelle frasi smozzicate sono una richiesta al suo buon cuore di ucciderlo».
In vent’anni d’attività, Casale con la sua associazione è venuto in contatto in tutta Italia con circa diecimila malati terminali. Welby è stato il primo a chiedergli la morte. Racconta che due mesi prima dell’evento fu contattato dai radicali. «Andai a casa sua. Viveva in un appartamento alla periferia di Roma». Una casa piuttosto piccola, raggiungibile solo con uno stretto ascensore che s’inerpicava per quattro piani. «Stava sdraiato su un letto addossato al muro, lontano dalla finestra. Non poteva vedere il paesaggio esterno. L’unica ad assisterlo era la moglie Mina, una donna minuta, mentre lui era un marcantonio di quasi due metri, ragione per cui la consorte certo faticava molto per spostarlo». Piergiorgio, oltre che dalla moglie, era assistito «due, tre volte la settimana, per un paio di ore al giorno, dagli addetti comunali». Mina lo sosteneva in tutto, dalle cure igieniche al nutrimento, alla pulizia del respiratore artificiale cui Piergiorgio era stato attaccato nel 1997. «Si nutriva con pappe fluide perché aveva difficoltà a ingoiare. Parlava poco e solo la moglie era in grado di comprenderne i suoni. Posso testimoniare che era assolutamente lucido e presente. Si può dire che era una persona assolutamente vivace, ma che riversava tutta questa sua vitalità verso un solo intento: morire con la bandiera in mano».
In quei giorni, il dottor Casale dichiarò ai giornali di «essere contrario all’eutanasia. è la risposta sbagliata di una società che non sa prendersi cura di chi soffre». Aggiunse anche che Welby era «un caso straziante di strumentalizzazione per fini politici».
Una stanza per vedere il cielo
«E tuttora sono convinto che sia stato un caso a forte tasso ideologico», ribadisce a Tempi. Casale ricorda che la richiesta di Welby fu subito chiara: «Voleva essere staccato dal respiratore e basta. Però aveva anche paura di soffrire perché aveva capito che sarebbe andato in crisi respiratoria e sarebbe morto per soffocamento». Il medico gli propose delle alternative: l’aiuto di uno psicologo, di infermieri, di altri volontari. Gli disse anche che avrebbe potuto portarlo in un hospice, un ospedale accogliente in cui avrebbero potuto con più facilità spostarlo dal letto, condurlo in giardino, fargli prendere “un po’ d’aria”, mostrargli quel cielo che, ormai da un anno, non poteva scorgere dalla finestra del suo appartamento. «Niente, era determinato nel suo intento. Nel gergo di noi esperti, chiamiamo questa situazione un caso di “sofferenza spirituale”, che non ha niente a che fare con la religione. Significa che il soggetto è in preda a una profonda crisi esistenziale». Ma Welby non accettò nemmeno il trasferimento all’hospice. «E nemmeno l’assistenza domicilare. Ha rifiutato anche la terapia ansiolitica». Dopo questa serie di dinieghi, Casale gli ha allora prospettato una sedazione sottocutanea. «Questo, ho precisato, non però per ucciderlo, ma per abbassargli il livello di coscienza, per non farlo soffrire. Le cure palliative infatti non servono per “far morire”, ma per “non far soffrire”. Avesse accettato sarebbe comunque andato incontro alla morte, ma in modo naturale, indolore, non traumatico». Niente. Welby voleva essere sedato e contestualmente staccato dal respiratore. è quello che è accaduto la notte del 20 dicembre quando Mario Riccio, anestesista di Cremona, gli ha dato la morte.
Martini sarà male informato
è curioso notare che quella che è sempre stata presentata come una battaglia in nome dell’eutanasia (e che così era intesa da Welby) sia oggi presentata in altri termini. Riccio ha dichiarato all’Unità che «da parte mia non c’è stato un atto eutanasico». E anche il cardinale Carlo Maria Martini, in un suo recente articolo sul Sole 24 Ore, dà a intendere che casi come questi – «su cui in futuro la Chiesa dovrà dare più attenta considerazione anche pastorale» ha scritto – siano da considerare semplici interruzione di accanimento terapeutico. Ipotesi, però, esclusa nel pomeriggio del decesso dal Consiglio superiore di sanità che, richiesto di un parere dal ministro della salute Livia Turco, aveva sentenziato non trattarsi di accanimento. Casale non vuole polemizzare con l’ex arcivescovo di Milano («è una persona che stimo. Sarà stato male informato») però ci tiene a sottolineare il fatto che «il ventilatore che lo teneva in vita non era né inutile né dannoso per la sua salute. Le sue condizioni non facevano assolutamente pensare che la sua morte fosse prossima».
Anche un convinto sostenitore della dolce morte come l’oncologo Umberto Veronesi ha detto, durante l’audizione parlamentare, che «eticamente quello di Piergiorgio Welby è stato un suicidio». In questo caso, un suicidio assistito. «E certamente non indolore», chiosa Casale. «Perché quel che purtroppo vedo ancora non essere chiaro è che, sebbene il paziente sia stato sedato, non è possibile pensare che la morte sia giunta “come dormendo”». Il suo corpo deve aver reagito al distacco del respiratore. Casale si chiede: «Ma eutanasia non significa dolce morte? Qui di dolce c’è stato ben poco. Se l’hanno sedato e contestualmente staccato, significa che per 30, 40 minuti quel corpo ha sussultato nel letto prima che sopraggiungesse la fine della sofferenza». Il dottore non era presente quella sera a casa Welby – c’era la moglie Mina con Marco Cappato dei radicali e Riccio – ma può assicurare che «se è vero che Welby non era cosciente, il suo corpo, però, avrà cercato lo stesso ancora aria». Questo significa che la morte è giunta per «soffocamento».
La piaga dell’abbandono
«è stata una delle vicende più difficili della mia vita» dice Casale. Che se la rideva tristemente quando leggeva sui giornali «le opinioni di quei grandi luminari che parlavano della necessità pietosa di esaudire la volontà di Welby. Quante interviste abbiamo letto di medici che si dicevano disposti a staccare la spina?». S’intristiva Casale perché, poi, davanti alla porta di casa «non è che ci fosse la fila…». Lui, piuttosto, rimane convinto che «oggi non sappiamo più affrontare la morte. Anche negli ospedali; si muore dietro un paravento». La nostra è una società «che sta molto bene e non sa più come comportarsi davanti alla malattia, al dolore, alla fine». Casale non ha particolari ricette, ma è convinto che «oggi il problema più grave non sia discutere quale legge sia più adeguata, ma piuttosto risolvere altri più urgenti questioni: la formazione dei medici sulle malattie terminali, la loro preparazione sulle cure palliative, la piaga dell’abbandono». «Se ti prendi cura di qualcuno, è altamente improbabile che quello ti chieda di morire», assicura. «L’abbandono è il vero avvio alla richiesta di eutanasia. Invece, posso testimoniare che anche gli ultimi trenta, quaranta giorni di vita – è questo il periodo restante dei miei pazienti – possono essere un tempo prezioso». A Casale sembra che oggi ci si ritrovi immobilizzati in una palude che «non c’entra nulla con il cuore della vicenda: il rispetto della vita».
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