Se il mito dell’autodeterminazione diventa violento

Di Carl R. Trueman
24 Luglio 2022
Carl R. Trueman per First Things sulla rabbia esplosa negli Usa dopo la sentenza sull’aborto: «Quando si passa all’uso della forza e all’intimidazione, non è più mito ma menzogna»
La chiesa del Sacro Cuore di Maria a Boulder, Colorado, vandalizzata con slogan pro aborto
La chiesa del Sacro Cuore di Maria a Boulder, Colorado, vandalizzata con slogan pro aborto

Per gentile concessione di First Things, proponiamo di seguito in una nostra traduzione un articolo di Carl R. Trueman, professore di Studi biblici e religiosi al Grove City College e fellow all’Ethics and Public Policy Center di Washington, apparso giovedì 21 luglio 2022 nel sito della rivista americana (qui l’originale in inglese).

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La pura rabbia con cui è stata accolta la sentenza Dobbs esige riflessione. La retorica intorno alle vittime di incesto e di stupro è forte, ma non è sufficiente a spiegare la rabbia, visto che simili casi sono relativamente rari ed eccezionali. Costituiscono materia buona per fare appello alle emozioni del pubblico, ma non sono né fondativi per la filosofia della causa pro-aborto né la vera fonte dell’indignazione a cui stiamo assistendo. E non spiegano neanche la violenza e la sete di vendetta ora rivolte contro le chiese cattoliche e i centri per gravidanze in crisi [crisis pregnancy centers, ndt], né tanto meno la reazione curiosamente veemente da parte di persone di altri paesi in cui spesso le leggi non sono più liberali della legislazione del Mississippi che ha portato al caso Dobbs.

Il fatto stesso che l’aborto sia diventato il dogma caratterizzante del femminismo moderno è affascinante, se si considera che richiede una radicale negazione o ripudio di ciò che rende una donna una donna: un corpo conformato intorno alla capacità potenziale di concepire, gestare e poi partorire un figlio. Non tutte le donne possono fare o fanno figli, certo, ma questo non significa che non siano donne secondo questa definizione biologica. Come sostiene Abigail Favale in The Genesis of Gender, respingere questa definizione su tali basi significa confondere atto e potenza. Pertanto, un femminismo che fa della distruzione del bambino un principio dogmatico non negoziabile è un femminismo che rigetta l’essenza stessa di che cosa significa essere una donna. È una perversione di quello che il vero femminismo dovrebbe essere. Per inciso, è ciò che si cela dietro la paradossale e incoerente incapacità, da parte di quanti si spendono così appassionatamente per i diritti delle donne, di definire che cosa siano in effetti le “donne”.

E questo ci offre un indizio riguardo alle cause dell’indignazione. L’abrogazione del diritto all’aborto ha due ovvie conseguenze. La prima è che riafferma l’importanza del corpo fisico per l’identità femminile. La seconda è che colpisce profondamente e duramente l’idea che gli esseri umani siano definiti dalla loro libertà e autonomia piuttosto che dalla loro dipendenza e dai loro doveri. Insomma, contraddice due dei miti che guidano la nostra cultura contemporanea, quanto meno per come essa è intesa dalle élite. E quando i miti che guidano una cultura vengono sfidati, è prevedibile che quanti sono devoti ad essi si arrabbino parecchio e reagiscano con forza.

Qui c’è un’analogia con il mondo accademico. Gli accademici intesi come classe presumono di essere loro a gestire le loro istituzioni. Io stesso sono un accademico e posso testimoniarlo. Ogni giorno sto davanti agli studenti in aula con la sensazione di essere il re di tutto ciò che rilevo. Ogni intuizione nel mio spirito accademico mi sussurra che io e i miei colleghi siamo le persone più importanti nel campus. Invece non sono gli accademici a gestire le loro istituzioni. Le gestiscono le amministrazioni e i consigli, ed essi ogni tanto faranno pesare il proprio grado e affermeranno la propria autorità. Ed ecco che allora noi docenti di solito ci mettiamo a strillare pieni di rabbia, non appena perché magari non condividiamo qualche politica adottata, ma perché ci è stato dolorosamente ricordato che la nostra auto-percezione come padroni del nostro universo professionale si è rivelata un mito.

Ciò che è vero nei boschi dell’accademia è perfino più vero nel nostro tecnologizzato mondo moderno. La società occidentale è costruita sul mito secondo cui gli individui sono responsabili della propria identità. E quando ci viene ricordato che le cose non stanno così, tendiamo ad arrabbiarci abbastanza.

La rabbia si manifesta più o meno per lo stesso motivo in altre aree della nostra cultura progressista. Gli ultimi anni hanno visto gli eccessi di questa antropologia disincarnata e libertaria estremizzarsi ulteriormente con l’avvento di sviluppi resi possibili dalla tecnologia come il transgenderismo e il transumanesimo. A questo si è accompagnata una reazione sempre più rabbiosa nei confronti di chiunque osi utilizzare un linguaggio che implichi una qualunque forma di realismo. Attribuire a una persona il genere sbagliato [misgendering, ndt] o chiamarla con il nome abbandonato [deadnaming, ndt] è un errore che può mettere fine a una carriera. La natura sproporzionata di questa reazione è indice del medesimo fenomeno che oggi accoglie la sentenza Dobbs: coloro che suggeriscono che siamo responsabili nei confronti della realtà del corpo stanno mettendo in evidenza la natura mitica del sé moderno.

Questo suscita un’ulteriore domanda interessante: quando un mito diventa una menzogna? I miti catturano l’immaginazione di una cultura e vengono da essa interiorizzati. Tipicamente, dunque, non richiedono alcuna diretta imposizione per mezzo della forza. Quando invece è necessario l’uso della forza e dell’intimidazione, allora certamente il mito sta diventando una menzogna, qualcosa che tutti sanno essere falso e rispetto al quale però i nostri agenti del potere culturale esigono comunque lealtà.

Sembra la sintesi della posizione in cui ci troviamo oggi in Occidente. Siamo furiosi perché i nostri corpi ci impongono dei limiti, facendoci presente che abbiamo dei doveri naturali verso gli altri e che non possiamo essere qualunque cosa e chiunque desideriamo. È il motivo per cui chiunque sostenga questo – e qualsiasi sentenza di tribunale che inviti la società a riconoscere questo fatto – viene accolto con furia irrazionale e sete di vendetta. La nostra è un’epoca in cui il mito sta diventando una deliberata menzogna.

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