“Mettere a valore” il coronavirus. Intervista a Ruini

Di Emanuele Boffi
13 Aprile 2020
Intervista al cardinale Camillo Ruini sull'emergenza coronavirus: «Sono tempi in cui, anche inconsapevolmente, viene alla luce l’agostiniana sete di Dio»
Madonna e Gesù bambino con protezioni anti coronavirus in un murale a Napoli

Articolo tratto dal numero di aprile 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Intervistato il 18 marzo dal Tg2, il cardinale Camillo Ruini ha parlato del valore della solidarietà, dell’aiuto reciproco e di quanto sia importante, in tempi come questi, confortarsi l’un con l’altro. Ma, a un certo punto, è come se avesse voluto spiegare quale sia la radice più profonda di questo mutuo soccorso («la morte non ha l’ultima parola. Bisogna pur dirlo questo»).

Ha così parlato della preghiera, della promessa cristiana della resurrezione e della possibilità di «mettere a valore» anche la triste, e per alcuni tragica, esperienza di questi mesi. Come? Per il cardinale è una questione di libertà: perché il grande sforzo di queste settimane non vada perso, perché nessuna lacrima versata diventi solo fonte di rimpianto, occorre che l’uomo eserciti fino in fondo il bene più prezioso di cui l’ha dotato il cielo: la sua libertà. Di fronte alle “cose ultime” cui in qualche modo il virus ha costretto tutti a fare i conti, non si può barare, dissimulare, nascondersi.

La situazione attuale ha certamente messo tutti di fronte a un fatto con cui la nostra società fatica a rapportarsi: la morte. I racconti che vediamo sui giornali provenire dagli ospedali o quelli che ci giungono dalla cerchia di parenti e amici sollevano una serie di domande che lei nell’intervista al Tg2 ha così sintetizzato: «Con la morte finisce tutto? Oppure la morte è un passaggio, che è doloroso, drammatico, ma è verso la vita?». Lei crede che la nostra società sia in qualche modo “impreparata” a rispondere a questi interrogativi? 

Ormai da molti anni si parla di “rimozione” della morte, un fenomeno sociale e culturale che caratterizza il nostro tempo. La morte diventa cioè socialmente insensata, perde il suo significato e la sua valenza simbolica. Io stesso, nella mia lunga vita, ho potuto toccare con mano alcune fasi di questa vicenda: ad esempio, quando ero ragazzo i parenti stretti di un defunto portavano per almeno sei mesi il lutto, oggi nessuno pensa più a qualcosa del genere. Tanto meno, per conseguenza, la nostra società è orientata a pensare a un eventuale “dopo”. Così, quando muore una persona giovane, per esempio in un incidente stradale, ci ribelliamo contro quella che ci appare un’assurdità. Direi dunque che la nostra società è davvero impreparata a rispondere alla domanda: con la morte finisce tutto? O forse meglio: la nostra società porta dentro di sé la triste impressione che sia proprio così, che la morte sia semplicemente la fine. 

Camillo Ruini

Che compito hanno allora i cristiani in questo frangente storico?

All’inizio i cristiani concepivano se stessi come i testimoni della risurrezione di Gesù di Nazaret: questa era la missione anzitutto degli apostoli ma più in generale dei credenti in Cristo. Questo rimane anche oggi il compito fondamentale dei cristiani, sebbene il contesto storico sia molto diverso: i primi cristiani testimoniavano qualcosa che avevano sperimentato direttamente, noi siamo chiamati a testimoniare qualcosa che abbiamo a nostra volta ricevuto dalla testimonianza della Chiesa, in una catena ininterrotta che risale agli apostoli. Si tratta comunque di una catena solida, come era solida l’esperienza diretta dei primi testimoni. Naturalmente per testimoniare bisogna anzitutto credere: dobbiamo quindi chiedere al Signore il dono di una fede profonda. Testimoniare, inoltre, non è solo una questione di parole: alle nostre parole deve corrispondere la nostra vita, in particolare la disponibilità a porci al servizio degli altri. Aggiungo che con la morte non cessiamo di esistere in attesa di risorgere: c’è infatti in noi qualcosa che non muore e che chiamiamo “anima”, anche se oggi non è di moda parlarne, nemmeno purtroppo tra i teologi.

Talvolta si sente dire che la fede è un “conforto”, dando spesso a questa parola un mero significato psicologico, una sorta di consolazione per persone poco istruite. Eppure, pur in un momento in cui l’accesso alle chiese è limitato, non si possono celebrare Messe coram populo e funerali, si notano dei segnali (penso, tra le altre cose, al grande seguito televisivo che hanno avuti i gesti promossi da papa Francesco) che ci dicono che da parte di molti italiani c’è una ricerca, ci sono delle domande cui nemmeno la scienza e la medicina sanno rispondere in maniera adeguata. Cos’è questa esigenza? Di cosa è rivelatrice?

La scienza e la tecnica sono realtà potenti e preziose, a patto di non chiedere loro quel che non possono dare. In concreto, la medicina è in grado di ottenere risultati che fino a non molto tempo fa erano impensabili. Quando però interviene la morte ogni possibilità di intervento finisce e la scienza, la tecnica, la medicina non hanno più nulla da dire. Ricordo che quando morì mia madre venne alla Messa funebre un cugino che era un notevole medico e uomo di scienza, decisamente ateo. Terminata la funzione, quel cugino mi prese da parte e, riferendosi alla mia omelia, mi disse: «In queste circostanze solo voi (sacerdoti) potete dire una parola». Ciò che viene alla luce in situazioni come questa del coronavirus è quell’inquietudine di cui parlava sant’Agostino, un’inquietudine che aspira confusamente a un “dopo” e in ultima analisi ha sete di Dio, sebbene spesso in maniera inconsapevole.

Questo virus fa “morire soli” nei reparti di terapia intensiva degli ospedali, lontano dagli affetti dei propri cari. Davanti ai malati si trovano solo i medici e gli infermieri, spesso anche negli ultimi momenti, prima dell’ultimo respiro. Alcuni di loro hanno raccontato essere quello il momento più difficile. Come consiglierebbe loro di comportarsi?

In quei momenti i medici e gli infermieri sanno meglio di me che occorre anzitutto essere vicini al morente, dirgli una parola buona, fargli percepire che non è abbandonato, anzi, che è amato. Ho letto che il vescovo di Bergamo ha invitato i medici e gli infermieri a dare a chi muore una benedizione: faccio mio questo invito che si riallaccia a una tradizione antica per la quale, ad esempio, il padre di famiglia benediceva la mensa.

Nella sua intervista al Tg2 lei ha detto che questo è il momento della responsabilità e della libertà. In particolare, quest’ultima parola è spesso abusata. Fino a ieri, la libertà era legata all’idea che ognuno può fare ciò che vuole, sempre e comunque. Ora, invece, ognuno di noi, costretto da una forza maggiore, capisce che la libertà per esprimersi deve seguire un altro indirizzo. Quale? Come si può essere veramente liberi anche in questi giorni?

L’idea che ognuno può fare ciò che vuole, sempre e comunque, ha poco a che fare con la vera libertà: separa infatti la nostra libertà da ciò che realmente siamo, creature legate agli altri, e la separa anche dalla nostra stessa intelligenza. Finisce quindi non con l’esaltare la libertà ma con il distruggerla. La tragica esperienza del coronavirus ci ha richiamati con forza alle nostra responsabilità. Vediamo però che nemmeno il coronavirus ha eliminato comportamenti poco responsabili, come quelli di non rispettare le norme indispensabili per evitare il contagio, o peggio di approfittare del disastro per lucrare qualche vantaggio economico. Così, insieme al legame essenziale fra libertà e responsabilità, viene alla luce quella caratteristica della nostra libertà di creature che è la possibilità di peccare: una possibilità che dobbiamo umilmente riconoscere. Per questo, come credenti, chiediamo al Signore di sostenerci con la sua grazia e di farci camminare sulla via del bene. Per essere davvero liberi nei giorni del coronavirus ma direi anche in circostanze molto più tranquille, occorre pertanto riconoscere che siamo tutti debitori gli uni agli altri. E come credenti sappiamo che dietro al debito reciproco sta un debito ben più grande, quello che abbiamo con Dio.

Lei ha detto che «l’uomo saprà vincere, attraverso la solidarietà reciproca, certamente, ma anche attraverso il suo ingegno, l’ingegno dell’uomo che viene da Dio e che ci farà trovare i rimedi anche per il coronavirus». Da dove le viene questa certezza?

In prima battuta potrei rispondere rimandando al mio carattere che è sempre stato improntato all’ottimismo, fin da quando ero ragazzo. Più seriamente, farei appello all’esperienza millenaria del genere umano che con la sua intelligenza è riuscito a venire a capo di sfide molto più gravi dello stesso coronavirus, anche quando era privo degli strumenti di cui dispone ora. In altre parole, questa pandemia ci fa giustamente paura ma anche in questo caso non dobbiamo perdere il senso della misura, trasformando il coronavirus in una specie di apocalisse. Il motivo ultimo della mia fiducia è comunque la certezza che Dio ci ama, Lui sì senza misura, nonostante tutti i nostri peccati. Perciò la preghiera è l’arma più forte di cui l’umanità dispone, e non – come tanti pensano – una piccola ciambella di salvataggio a cui ricorrere se manchiamo di più valide alternative.

Foto Ansa

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