#MeToo ma anche no. Cupido ai tempi delle porcherie

Di Annalisa Teggi
08 Marzo 2018
La libera orgia degli istinti e le preoccupazioni un po’ bacchettone e un po’ scontate del “femministicamente” corretto ci tengono lontani dal ragionare (seriamente) d’amore. Qui ci si prova: da Dante a Lewis, da Weinstein a Spacey



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«Mamma, cos’è uno stupro?».
Gli devo rispondere. Anche se ha solo 11 anni e lo considero ancora il mio piccolo bambino, una voce potente sta sussurrandogli all’orecchio parole a lui confuse, che entrano da ogni pertugio della realtà e della virtualità. C’è una ragazza al campo sportivo che frequenta, anche solo dire il suo nome lo mette in agitazione. Mi commuove vedere quel sorriso imbarazzato sul suo viso.
Quando controllo le chat di Whatsapp a cui partecipa, la commozione diventa sgomento: una caterva di insulti con allusioni sessuali pesanti, impensabili pure a me adulta. Tiro un sospiro di sollievo perché noto che mio figlio non partecipa attivamente a questa porcheria, però legge; allora gli chiedo cosa ne pensa, lui si defila dicendo che i suoi compagni si divertono a fare gli stupidi.
Poi c’è la tv, dove ad ogni ora si parla di molestie sessuali, opinioni pruriginose sul triangolo Romina, Al Bano e Loredana Lecciso, pubblicità in cui anche per parlare di caffè si usano allusioni a «quando l’abbiamo fatto per la prima volta» e poi cronache di stupri. Appunto. Non sono una purista della fascia protetta, primo perché non lo è mai, secondo perché la realtà fuori dal piccolo schermo non è protetta da bollini colorati.
Devo fare i conti col fatto che l’esperienza affettiva, in tutto il suo multiforme prisma di declinazioni (innamorarsi, fare sesso, amarsi, violentare, baciarsi), sta bussando alla porta della curiosità di mio figlio e lui è pronto ad ascoltare tutto ciò che arriva da ogni direzione. Se fossimo in un film, sarebbe il momento in cui i genitori si guardano e capiscono che è ora di fare «il discorso»; li si vede prendere il ragazzo in disparte e cominciare a farfugliare, ricorrendo a metafore animali, tendenzialmente l’ape e il fiore, o vegetali, con allusioni al pisello e alla patata. Il più delle volte la scena si conclude col figlio che rassicura i suoi dicendogli di non preoccuparsi, che sa già tutto; e loro tirano un sospiro di sollievo.
Non è questa la trama che voglio per la mia vita; devo ai miei figli qualcosa di più, perché ho ricevuto qualcosa di più. Ripenso a me, intuisco che il gesto di ricevere è adeguato a descrivere la cornice entro cui la grande galassia dell’amore è arrivata nel mio piccolo recinto, cioè come un dono. Tecnicamente un regalo è qualcosa che arriva al soggetto da fuori, da qualcuno che non è lui. Non è neppure detto che un dono rispetti per filo e per segno i desideri del ricevente; proprio perché è legato al pensiero di un altro.
Riflettendoci, ricevere è un verbo curioso: anche quando è usato in senso attivo ha un significato passivo. «Ho ricevuto la tua lettera» significa che tu l’hai scritta, tu l’hai affrancata, tu l’hai spedita e io me la sono trovata tra le mani. Se proprio vogliamo spararla grossa, cioè andare all’origine del mistero dell’amore, va detto che non siamo noi a «produrlo», è come una stella cadente che ci piomba addosso. È un messaggio che arriva da molto lontano; chissà chi è il vero mittente?
Gli onesti pagani immaginavano che ci colpisse attraverso una freccia scagliata da Cupido.
Anche i medievali erano un bel po’ più accorti di noi e raccontavano l’impatto fisico di un’attrazione in modo un po’ diverso da come l’impariamo al Grande Fratello, andando a spiare cosa ha fatto Cecilia Rodriguez nell’armadio con Ignazio Moser.
Prima il corpo, poi lo spirito
Era giovanissimo, aveva appena nove anni, Dante quando incontrò Beatrice per la prima volta, innamorandosene. Fu una cosa molto più simile a un trauma che a una gioia: un semplice sguardo fu in grado di generare un’esperienza fisica di dolore, come se il corpo venisse calpestato. Sentì annichilirsi ogni fibra di sé, e tremò forte.
Tremare non è una brutta parola, è segno di una paura che parla di eventi più grandi della nostra capacità di etichettarli. Ho tremato fortissimo subito dopo la nascita dei miei figli ed è una reazione del tutto fisiologica dopo il parto; ma l’ho sempre considerato il campanello con cui Amore bussa alla porta, strizzandoti le viscere innanzitutto. La strada per arrivare al cuore, all’anima è ancora lunga, prima c’è da decifrare il senso dello tsunami corporeo. Perché il corpo viene prima dello spirito. Me lo ha fatto notare l’amica Paola Belletti, attenta scrutatrice delle parole affatto casuali della Bibbia, «il corpo ci precede, viene prima. Prima ci plasma e poi ci soffia nelle narici la vita, Dio» (in Siamo donne. Oltre la differenziata c’è di più, Berica editrice). È la carne la prima ad accogliere Amore, perciò tradirla è tradire per intero il nostro io; offendere il corpo è violentare l’anima. È sempre Paola Belletti a suggerire che la prima esperienza affettiva non è un contatto tra l’uomo e la donna, ma un viaggio; i corpi di Adamo ed Eva si devono incontrare prima di tutto: «L’uomo non assiste alla creazione della donna. È faccenda tra lei e Dio. Ma per lui. E forma la donna come aveva formato l’uomo. “E la condusse all’uomo” (Genesi 2,21-22). A che distanza sarà stata? Come avrà percorso il tratto di strada verso l’uomo, la donna?».
Lo spazio di questo incontro, la distanza da colmare in un tempo anche lungo per arrivare all’altro, è vitale come l’ossigeno. Vorrei chiederlo alle cinque pornostar morte in appena tre mesi in California, tanto da far scoppiare oltreoceano un caso «depressione nell’industria del sesso». Bellissime, giovanissime ventenni, eppure infelici nonostante il loro mestiere fosse – almeno da copione – l’amore.
Una si è addirittura impiccata, appendendo simbolicamente al chiodo il proprio corpo, ciò che le faceva guadagnare un mucchio di soldi eppure, mia personalissima deduzione, gridava una profonda repulsione per la bulimia di contatti incessanti, usa e getta. Qualcosa di molto poco moralistico e assai carnale urla dentro una persona, anche quando definisce consensuali i suoi rapporti promiscui ed occasionali.
Non è di questo parere la pornostar Valentina Nappi che dalle colonne del Corriere afferma che il problema è opposto, bisognerebbe essere ancora più liberi nella pratica della sessualità: «Alle ragazze bisogna dire: se volete essere chic e moralmente superiori, datela il più possibile, concedetevi ai losers, agli emarginati, ai neri che vendono fazzoletti ai semafori, agli “ultimi”».
Chi è questa?
Questa evangelica democrazia sessuale è molto meno naturale del tremore di Dante; la libera orgia degli istinti tradisce il paradosso che si avverte quando un altro essere umano ci attrae. Il corpo sente forte la ferita del colpo di Cupido, quando s’innamora. Sente la lontananza di una presenza, ecco. Una delle tante dame che trafisse il cuore di Guido Cavalcanti fu capace di fargli esclamare: «Chi è questa?». E il sonetto che comincia con tale domanda è puro sconcerto, incapacità di contenere qualcosa di così tangibile eppure inspiegabile. Una figura femminile così precisa e vicina, tanto da poter descrivere minuziosamente tutti i riflessi dei suoi occhi chiari, riesce a spalancare il respiro del cuore fino a proiettarlo verso galassie lontanissime di attesa e ipotesi di bene mai azzardate.
Specchiarsi in quegl’occhi, proprio quelli, introduce la ragionevolezza di un’ipotesi inimmaginabile a priori: si fa via via più chiaro, eppure resta misterioso, che la voce narrante del proprio destino debba essere plurale. Ciascuno di noi, osservando la sua storia personale, può dire che arriva un momento in cui la conoscenza di se stessi entra in un percorso paradossale: mi vedo meglio attraverso lo sguardo di un altro. Lo specchio non basta più; rimasto da solo a contemplare se stesso, Narciso affogò. Può essere esaltante, a tratti vertiginoso, persino doloroso accettare questo tipo di dono: ascoltare una voce esterna che spalanca stanze mai visitate in un corpo che credevo «mio», in pensieri «miei», emozioni «mie».
Aprirsi a quest’ipotesi ci mette allo scoperto, un passo oltre le trincee del nostro egoistico accampamento. Lo spiega bene C. S. Lewis: «Amare significa, in ogni caso, essere vulnerabili. Qualunque sia la cosa che vi è cara, il vostro cuore prima o poi avrà a soffrire per causa sua, e magari anche a spezzarsi. Se volete avere la certezza che esso rimanga intatto, non donatelo a nessuno, nemmeno a un animale. Proteggetelo avvolgendolo con cura in passatempi e piccoli lussi; evitate ogni tipo di coinvolgimento; chiudetelo col lucchetto nello scrigno, o nella bara, del vostro egoismo. Ma in quello scrigno – al sicuro, nel buio, immobile, sotto vuoto – esso cambierà: non si spezzerà; diventerà infrangibile, impenetrabile, irredimibile. L’alternativa al rischio di una tragedia è la dannazione. […]. Sono convinto che il più sregolato e smodato degli affetti contrasta meno la volontà di Dio di una mancanza d’amore volontariamente ricercata per autoproteggerci» (in I quattro amori, Jaca Book).
La dipendenza del molestatore
Molto si è detto su Harvey Weinstein e il caso abusi sessuali a Hollywood, la gogna mediatica ha fatto vittime illustri come Kevin Spacey, Woody Allen, David Copperfield. Uscire dal seminato del commento «femministicamente» corretto (la litania su: no alla violenza sulle donne, puoi diventare famosa senza venderti, anche io ho subito molestie) è considerato eresia; ma vale la pena farlo. Il più sregolato degli affetti dichiara, in maniera pervertita, la necessità della presenza altrui; quando si costringe un altro essere umano a un contatto affettivo brutale (rubato e perciò esecrabile), si dimostra una vulnerabilità ultima che, se capovolta nel bene, è una ricchezza preziosa per ogni individuo. Fosse anche solo per un momento di godimento animale, di ebbrezza di potere, il molestatore dipende da un altro. È da condannare in tutto e per tutto, ma non va dimenticato ciò che malamente testimonia; la sua prevaricazione è l’urlo a rovescio di ciascuno di noi e grida: «La mia presenza ha un valore?».
Non so quanto sia stata disdicevole la condotta sessuale di Kevin Spacey, di certo questo non può offuscare certe verità che ha raccontato recitando. Mi pare addirittura eclatante che un uomo poco virtuoso nella realtà abbia dovuto fare i conti con la virtù suprema dell’amore, immedesimandosi in un personaggio fittizio. Nel film Un sogno per domani il signor Spacey interpreta il professore Simonet, un uomo che, per dirla con Lewis, ha chiuso il cuore in uno scrigno perché è stato abusato. Accettare la presenza di una donna che lo ama, peraltro molto imperfetta, significa mostrarle il suo corpo ferito dalle ustioni subite nell’infanzia da un padre mostro.
Simonet è un uomo che infine mette nelle mani di una donna il suo desiderio di non essere guardato per il male che lo ha segnato. La violenza del sopruso è il volto demoniaco della forza uguale e contraria che si cela dentro l’evento di un amore, ed è non meno violenta nel bene; tanto da far tremare.
Farfalle nello stomaco
Chesterton lo espresse in modo chiarissimo riassumendo la morale de La bella e la bestia nel paradosso: «Una cosa deve essere amata prima di essere amabile». Solo lo sguardo di un altro è capace di questa audacia che spalanca l’ipotesi del nostro essere preziosi, oltre i nostri limiti, le cattiverie e le ferite. L’amore è un’interferenza celeste che ficca la speranza nella pancia.
«Voglio sentire le farfalle nello stomaco», si dice sia questo il modo di riconoscere l’amore vero. È un’immagine splendida e molto più realistica di ciò che sembra: una manciata di creature alate e leggere entrano nella parte meno decorosa di noi, l’apparato digerente. È il cielo che entra nelle viscere, è come dire: il cibo che soddisfa appieno ogni mia fibra è l’aria in cui danzano gli angeli. Tutto di me, anche i frammenti più indecenti, hanno bisogno di non sentirsi un vuoto a perdere, ma parte di un abbraccio tanto personale quanto universale, che misteriosamente somigli al sorriso di Dio quando si compiacque di ciò che creò. 

@AlisaTeggi


Foto Ansa

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