
Meno ipocrisia amici francesi
Direttore, nell’Amleto un personaggio sostiene che c’è del marcio in Danimarca. C’è del marcio anche nel sistema politico francese? E in cosa consisterebbe?
Il sistema politico francese, come tutti i sistemi politici, funziona o non funziona a seconda delle curve della storia. Fondamentalmente è un sistema politico abbastanza solido, che ha retto il carisma di De Gaulle, che avrebbe potuto diventare, come opinava gran parte della sinistra italiana all’inizio degli anni Sessanta, un carisma bonapartista, e invece il sistema francese l’ha stemperato. Un’altra buona prova di sé il sistema della V Repubblica l’ha dato con l’alternanza: in Italia la prima vera alternanza fra governo e opposizione è stata quella che abbiamo avuto l’anno scorso, invece in Francia ha avuto luogo vent’anni prima, nel 1981, con la vittoria di Mitterrand alle presidenziali e l’affermazione della sinistra di governo. Poi naturalmente ogni sistema politico è fatto anche delle sue degenerazioni: i fatti si incaricano di sporcare la purezza dei sistemi. Chirac è stato un presidente scipito, che ha commesso un clamoroso errore di valutazione politica con lo scioglimento anticipato del Parlamento nel 1997, cui è seguita la vittoria elettorale di Jospin e la “coabitazione”. Adesso siamo al grottesco, perché la divisione aritmetica della sinistra ha prodotto il rilancio del fenomeno Le Pen, che poi non è un gran fenomeno perché ha sempre più o meno avuto quei voti: sono 10-15 anni che la Francia si ritrova in casa una forte componente xenofoba e fascistizzante. Il fatto clamoroso è l’indebolimento da un lato dei gollisti e dall’altro della sinistra. Indebolimento che solo l’aritmetica indica come dovuto a divisione; in realtà è indebolimento di forza propositiva. Jospin non ha fatto malissimo; ma la sinistra, se fa le cose per bene si suicida, perché una parte di essa rimprovera all’altra uno “spirito gestionario”. La sinistra ha bisogno di miti che la alimentino, che la spingano: Jospin si è rifiutato o non era capace di fornire miti alla sinistra, e quindi lo hanno abbandonato in tanti, rifugiandosi nell’antipolitica. In Francia oltre al 15-17% etnicizzante di Le Pen, abbiamo un 12-14% trotzkistizzante; le forze che si richiamano ad orientamenti liberali hanno il 5-6 per cento, il resto va ai gollisti, una vecchia formazione nazional-popolare, e ad una sinistra divisa. La fotografia della società francese che ci arriva dalle elezioni sembra un dagherrotipo. Sembra roba dell’Ottocento, fuori della storia. Ma non saremo noi a criticare le anomalie degli altri visto che abbiamo anche noi le nostre, abbiamo i partiti-azienda, abbiamo una sinistra che quando vince ci spiega con Violante che i ragazzi di Salò avevano le loro motivazioni, e quando perde e va all’opposizione ci spiega che la pacificazione non è più d’attualità, bisogna tornare alla guerra civile. Insomma, anche noi abbiamo anomalie e squallore culturale in politica, e quindi ci possiamo prendere la soddisfazione di fare un girotondo ideale attorno all’Eliseo e ai palazzi della politica francese, ma poi non dobbiamo esagerare.
Ma questa fotografia di una Francia così sfasata poteva essere meno impietosa con un sistema politico diverso, un sistema in cui le estreme venissero incluse anziché escluse? Non è forse questa la differenza fra la situazione italiana attuale e quella francese?
Sì, certamente in Italia la legge elettorale, pur con tutti i suoi difetti, ha funzionato. Ma ha funzionato perché c’è stato un tizio molto ricco, imprenditore di televisioni, che nel ’94 ha detto: «a Roma voterei Fini senza esitazioni» e poi si è messo a brigare per avere anche il consenso della Lega e inserire anche il leghismo di allora dentro ad una coalizione di centro-destra. Cioè ha funzionato perché nel sistema c’è stata una forte personalizzazione, una forte bipolarizzazione, e i tratti caratteristici di ciò che ha funzionato in Italia derivano, paradossalmente, dalle nostre anomalie: un uomo molto ricco e con le televisioni ha potuto costruire una coalizione di destra democratica, non lepenista, anche recuperando la Lega dalla deriva secessionista che aveva preso dopo il Ribaltone.
Tutto questo non è successo in Francia, dove non c’è né strategia politica né meccanismi istituzionali funzionali all’inclusione, e quindi alla democratizzazione dell’estrema destra.
Sì, è così, ma avendo ben chiaro che non è una questione di sistema politico o di meccanismi istituzionali, ma della cultura che li anima…
Ma guardando alla sinistra francese, lì non c’era stato un tentativo di inclusione? La gauche plurielle non era un “meccanismo virtuoso di inclusione”? Allora che cos’è che non ha funzionato?
No, la gauche plurielle è stata un compromesso fondato sul riconoscimento delle rispettive identità: ciascuno con la propria identità, tutti contro l’avversario gollista. Così il governo di sinistra ha lavorato, ma le identità si sono confermate e consolidate nella loro irriducibilità. In più, loro hanno avuto la coabitazione, che è una sorta di Bicamerale permanente, e questo ha ulteriormente radicato e rafforzato le identità di opposizione, sia a sinistra che a destra.
Jean-Marie Colombani su Le Monde e Bernard Henry-Levy sul Corsera hanno bacchettato gli elettori per le loro scelte; non è un’idea un po’ paternalista di democrazia, un sintomo ulteriore della crisi del sistema?
Certamente sì. Ma nell’illuminismo, si sa, c’è questa vena paternalista dei sapienti nei riguardi del popolo. Brecht scriveva: «Il Comitato centrale ha stabilito che non è la linea del partito ad essere sbagliata, ma il popolo». Queste tracce dell’Illuminismo erano visibili anche nella tradizione politica del comunismo europeo negli anni Trenta e Quaranta, sotto la grande ombra di Stalin. C’era la tendenza a credere che il partito-avanguardia (nel caso francese l’avanguardia non è il partito, ma sono gli intellettuali) ha sempre ragione, e il popolo ha sempre torto. Anch’io non voterei mai Le Pen, anch’io sono “contro”, ma non in modo paternalista; bisogna trattare i voti presi da Le Pen come un dato della realtà da non esorcizzare, come l’espressione di paure sociali che vanno affrontate.
A giugno si vota alle legislative, ed è prevedibile una vittoria della sinistra “plurale” (che stavolta trarrà vantaggio dai voti dati a Le Pen). Quindi ci sarà di nuovo la coabitazione, cioè altri cinque anni di inciucio fra destra e sinistra istituzionali. Che ne sarà della Francia, e che ne sarà dell’Europa?
Niente di drammatico. Così come la cultura politica insufficiente e poco liberale della Francia ha inferto un colpo al suo sistema politico, producendo un ballottaggio spurio, così poi dopo le elezioni presidenziali e legislative il sistema politico rimetterà le cose sui binari. E allora ci riaccorgeremo che la Francia è un grande paese europeo che ha istituzioni molto solide, che ha una capacità di partecipare alla vita europea e del mondo, in forme anche smaglianti talvolta. Penso che si farà strada, in qualche modo, una visione più europea, più liberale.
Più liberale anche nei confronti dell’Italia e delle sue anomalie, dopo tutto il disprezzo e l’ostilità che ci hanno riservato in questi mesi?
Penso di sì. Se i francesi comprendessero che la tivù è uno strumento -non demoniaco né messianico- di affermazione di un individualismo moderno accettabile, sarebbe un passo in avanti decisivo. Per il momento sono fermi a Pierre Bourdieu e alla sua guerra contro la mediocrazia, che è un altro aspetto della loro lotta contro il modello americano. Certo, il modello americano è anche tante cose che rifiutiamo, che non appartengono alla nostra storia, però alla fine bisogna scegliere: o aderiamo ad un comunitarismo etnicizzante, nazionalista con venature fortemente xenofobe come quello di Le Pen, oppure no. Se non aderiamo a quello, bisognerà pure che i francesi si educhino a dare un po’ di spazio non soltanto a Marianna, cioè al sedimento della Rivoluzione del 1789, ma alle ragioni dell’individuo. La modernità può non piacere, è giusto che venga sempre vissuta criticamente, il liberalismo dogmatico lo trovo insopportabile, però non possono continuare a fare finta di non essere quello che sono. Datemi una Francia che riesce a crescere centrata sui suoi Roquefort anziché con Vivendi, le attività finanziare di Axa e l’industria aeronautica integrata in Europa, e allora anch’io starò con José Bové e vi passerò per buono persino Le Pen. Ma siccome la realtà non è questa, e il mondo è fatto anche di linee telefoniche, di industrie di telecomunicazione, di reti, di mercati, e la Francia ci tiene dentro più di un dito, allora facciano il piacere di non fare finta di vivere su di un altro pianeta, e cerchino anche loro un compromesso. Noi lo abbiamo trovato, un po’ abborracciato com’è nella tradizione italiana: abbiamo preso un capitalista outsider e ne abbiamo fatto il leader della riforma del sistema. Loro trovino il modo che vogliono, ma lo trovino.
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