
Memento resurgere

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – C’è una notte di trentacinque anni fa, quella dell’11 luglio del 1982, in cui l’Italia rimase sveglia a fare festa nelle piazze, nei rioni, nei lungomare di ogni paese e di ogni città. Era accaduto che avevamo vinto il campionato mondiale di calcio ma era anche successo – anche se ancora non lo sapevamo – che eravamo diventati un paese diverso. Il calcio ha le sue ragioni che la ragione non conosce e tuttavia non si trattò solo di football.
Ma andiamo con ordine e cominciamo da quella notte al Santiago Bernabeu, dove battiamo 3 a 1 la Germania. Dopo il fischio di chiusura Nando Martellini ripete per tre volte: «Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo». È commosso. E incredulo. Nessun italiano sensato, compreso Enzo Bearzot, avrebbe scommesso una lira anche solo sul fatto di arrivare ai quarti di finale. L’Italia partiva sfavorita: un sondaggio Gallup svolto in 19 paesi aveva rilevato alla vigila del torneo che solo l’1 per cento degli intervistati pensava che la nazionale azzurra potesse vincere il mondiale. Il primo turno è deprimente: un pareggio con il Perù, un faticoso zero a zero con la Polonia e un pari con il Camerun.
La stampa ci va con la mano pesante: “Inferno Italia”, titolano i giornali. Che alludono anche a un rapporto omosessuale tra Paolo Rossi e Antonio Cabrini solo perché una mattina si sono affacciati in pigiama dal terrazzo dell’albergo di Vigo, dove alloggia la squadra. Il calcio italiano del resto è appena uscito dal più grave scandalo della sua storia: partite comprate e vendute, le squadre retrocesse dai tribunali sportivi o penalizzate. Il calcio-scommesse allungava ora la sua ombra di discredito anche sulla nazionale.
Ma non era solo il calcio ad essere piombato nella sua notte più buia, l’intero paese era stato inghiottito dall’orrore della violenza quotidiana, degli scandali politici e finanziari, del terrorismo e delle stragi, da tragedie collettive come fu quella di Alfredino Rampi, il bambino inghiottito da un pozzo artesiano nella campagna di Vermicino, alla periferia di Roma, il 10 giugno del 1981. Il piccolo Alfredo resta tre giorni nel pozzo: si tenta con ogni mezzo, improvvisato, di tirarlo fuori ma ogni espediente usato – viene impiegato persino un nano che si cala con la fune a testa in giù – risulterà inutile. Alfredino morirà tre giorni dopo, lasciando sotto shock l’intero paese. La sua agonia, i pianti della madre sull’orlo del pozzo che tenta di parlargli, la disperazione del padre, vengono ripresi in diretta ogni giorno, nessun particolare è risparmiato. Si inaugura così la tv del dolore con la rappresentazione simbolica di un paese smarrito, segnato dal sacrificio degli innocenti. L’Italia – non è passato nemmeno un anno dai massacri di Bologna e di Ustica che hanno funestato l’estate del 1980 – sembra ostaggio di una maledizione, avvolta da un’aura di morte e di paura che la grava come un mantello di piombo.
Ma c’è un altro fatto enorme che avviene quel 10 giugno del 1981 e che la vicenda di Vermicino oscura per qualche giorno. Viene rapito a San Benedetto del Tronto Roberto Peci, fratello di Patrizio Peci, il superpentito delle Brigate rosse che con le sue rivelazioni ha consentito agli inquirenti di smontare l’organizzazione terroristica che da dieci anni azzoppa, uccide e rapisce. Le Br dicono di combattere in nome dei proletari ma poi ammazzano gli operai, come Guido Rossa. Anche Roberto è un operaio, con la politica lui ha chiuso, vuole solo vivere tranquillo per la famiglia con il suo lavoro. Solo che è il fratello di Patrizio Peci e c’è chi lo ha individuato come obiettivo di una vendetta trasversale. Le Br di Giovanni Senzani lo prelevano a San Benedetto del Tronto e lo trasportano in auto fino a Roma dove lo tengono prigioniero per cinquantatré giorni in uno squallido casolare sulla via Appia. Gli interrogatori vòlti a estorcergli confessioni di tradimento vengono filmati con una videocamera e condotti dal capo brigatista che ha ordito tutta l’operazione e ne gestisce la mediatizzazione. La sentenza di morte viene letta dallo stesso Senzani con il sottofondo musicale di Bandiera rossa e un impietoso primo piano di telecamera sul volto in lacrime del prigioniero. Una messinscena grottesca che si concluderà con l’assassinio di Roberto Peci.
Pure l’attentato al Papa
Il 1981 è anche l’anno dell’attentato al Papa. Ali Agca, 23 anni, turco, militante del gruppo di estrema destra Lupi grigi, spara a Karol Wojtyla tre colpi di pistola in piazza San Pietro. È un altro fatto enorme che contribuisce ad alimentare un’atmosfera cupa nel paese. È su questa scia che l’Italia arriva ai mondiali di Spagna dell’82 e i risultati dell’avvio del torneo confermano uno stato di sfiducia generale. Tuttavia, sebbene l’inizio sia stato claudicante, riusciamo ad andare avanti. Al gironcino dei quarti e in semifinale c’è il crescendo: prima vinciamo con l’Argentina campione del mondo ’78 e poi 3 a 2 con il Brasile – la squadra favorita, tanto che i Carioca avevano già prenotato l’albergo a Madrid – poi battiamo 2 a 0 la Polonia. Invece in finale al Bernabeu ci siamo noi con la Germania. La vigilia dell’11 luglio è carica di timore e tremore. È come se l’intera nazione attendesse dalla finale una risposta su se stessa, sulla possibilità d’un futuro che non assomigli all’orrore che ha conosciuto nell’ultimo decennio, che s’è aperto con la bomba di piazza Fontana, il 12 dicembre del 1969, e si è chiuso con la strage di Bologna il 2 agosto del 1980.
La partita del Bernabeu non è solo una partita, è un rito collettivo a cui assiste anche chi non ha mai seguito un incontro di calcio. Quelli di Italia-Germania saranno 90 minuti per l’orologio dell’arbitro ma per noi sono uno spazio sottratto al tempo ordinario, un tempo mitico in cui viviamo come sospesi. Il gol di Rossi che arriva al 57’ apre la prima breccia nella diga tedesca ma se possibile aumenta la tensione emotiva. L’Italia però gioca in stato di grazia e al 68’ arriva anche il raddoppio di Tardelli. Non è finita: i panzer non mollano un centimetro e soprattutto picchiano come fabbri, ne sa qualcosa il povero Oriali. Cercano la rimonta e lo fanno con metodo e cattiveria. Si soffre e si spera. Però al terzo gol, quello di Spillo Altobelli, a nove minuti dal termine, un boato collettivo e liberatorio si alza da ogni casa italiana. «Non ci prendono più», dice Sandro Pertini scattato in piedi in tribuna. E infatti la rete di Breitner, all’83’, guadagna alla Germania solo l’onore delle armi.
Il fischio finale dell’arbitro è il suono lungo il quale corre via il sortilegio in cui sembrava avvinto l’intero paese. L’Italia si riversa nelle strade con il tricolore in mano: un paese che era percorso dall’odio e dalle divisioni si ritrova, come in un bagno battesimale di rifondazione collettiva, unito al di là delle barricate ideologiche, delle faglie sociali e generazionali. Nell’urlo di Tardelli che commosso ripete come in trance «gool, gool, gool», correndo verso la panchina di Bearzot, c’è tutto. È l’urlo liberatorio di un intero paese, è un grido che funziona da segnale della rinascita e della ripresa dell’Italia intesa come Nazione, prima ancora che come Nazionale.
L’età dell’ottimismo
Gli italiani cominciano a credere che è possibile uscire dalla notte della Repubblica, cominciano a credere che si può vincere. Sarà un caso ma nel 1982 l’Italia vince decine di titoli mondiali in varie discipline sportive: Uncini nel motociclismo, Saronni nel ciclismo, i fratelli Abbagnale nel canottaggio, Simeoni nel salto in alto… e dal 1982 e per gli anni successivi l’Italia conosce un periodo di ottimismo, di crescita, di esplosione del made in Italy, persino di stabilità politica con il varo delle formule di pentapartito e l’ingresso dei socialisti nello schema delle maggioranze di governo.
È vero, gli anni Ottanta sono stati anche “il decennio di plastica”, sono stati gli anni della crescita del debito pubblico e dove la corruzione politica ha cominciato a diventare sistemica. Ma restano il periodo più vitale dell’ultimo mezzo secolo. Anni formidabili che archiviano l’egemonia della violenza e la follia del terrorismo. Anni in cui il peggio sembrava essere passato come canterà Sergio Caputo nel 1983, nel suo Un sabato italiano. Oggi che il paese sembra ripiombato nel buio delle sue speranze, ricordare il mundial dell’82 e la notte del Bernabeu è un modo per non dimenticare che risorgere è possibile, che possiamo tornare a vincere.
Foto Ansa
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