
La preghiera del mattino
Che cosa ha in mente Giorgia Meloni per il futuro di Fratelli d’Italia

Su Dagospia si scrive: «Cosa ha spinto la ducetta a dare in mano il partito a sister Arianna, innescando incazzature e malumori tra i Fratellini d’Italia (“Cosa inconcepibile”)? A pesare non è solo il pesante logorio fisico del primo anno di governo, un autunno caldissimo davanti: Meloni sa che si gioca tutto con il voto europeo del giugno 2024 e la compilazione delle liste si prospetta già durissima (non siamo più al 4 per cento, ora i camerati a cantare sono tanti). Quindi “Io so’ Giorgia e voi non siete un cazzo” ha voluto mettere al comando del partito una delle pochissime persone di cui fida ciecamente».
Con il suo solito stile irriverente Dagospia sottolinea le mosse d’emergenza della Meloni per garantire una solida guida del suo partito nei prossimi difficili mesi. Non mi pare convincente la tesi sul peso che oggi avrebbe nella Meloni l’attenzione per il voto europeo (tra l’altro in quelle elezioni ci sono preferenze che consentono un’articolata mobilitazione delle forze di FdI). Piuttosto il problema meloniano è il raccordo tra difficili scelte politiche (la finanziaria, l’autonomia regionale, il premierato, il salario minimo, la riforma fiscale) e la società, un rapporto che richiede un’iniziativa (e un’organizzazione) anche di partito e non solo governativa o parlamentare.
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Su Linkiesta Mario Lavia scrive: «Due possibili spiegazioni, azzardiamo. La prima è che forse non si punta troppo su una longue durée del melonismo di governo, e che quindi non convenga approdare su lidi considerati alquanto limacciosi: è un’ipotesi che si salda a quella di Stefano Folli che ieri su Repubblica ha evocato la possibilità che la luna di miele di Giorgia si stia in qualche modo esaurendo. La seconda spiegazione sta nella natura respingente di Fratelli d’Italia, un partito-setta, restio a cercare “le cose nuove”, abbarbicato nella sua vecchia identità, prigioniero dei suoi tradizionali linguaggi e delle sue consolidate idiosincrasie culturali, un partito conchiuso nelle sue nuove e soprattutto vecchie certezze, incapace di contaminarsi con l’altro da sé perché dell’altro da sé bisogna diffidare, certamente non è abbastanza “patriottico” e magari è in odore di cosmopolitismo in fin dei conti “comunista”. Per questo Fratelli d’Italia resta una cosa “loro” e tutti i dirigenti sono “loro”. I “Gabbiani” vigilano come i pasdaran iraniani. Se non sei dei loro non entri. Possono fare tutti i maquillage che vogliono, alla fine Fratelli d’Italia è un partito orientale, uno scrigno la cui chiave è nelle mani di sorelle e cognati, camerati e fedelissimi, in piccolo girotondo chiuso e abbastanza antipatico».
L’analisi di Lavia non coglie bene il processo innescato da Fratelli d’Italia che ha messo in movimento un mondo conservatore non solo ex missino: si considerino solo Guido Crosetto, o Raffaele Fitto o in Lombardia Mario Mantovani e Lorenzo Malagola, o il peso decisivo che nell’azione di governo ha Alfredo Mantovano. Però l’osservazione di Lavia sul peso nel “partito” che ha la vecchia guardia e parallelamente la difficoltà di organizzazione degli esterni alle antiche esperienze, è senza dubbio un problema non ben risolto.
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Su Formiche Gennaro Malgieri scrive: «Se non è credibile che il centrodestra possa sfasciarsi a causa di incomprensioni interne e posto che nessuno possa insidiare il primato di Meloni, è tuttavia ipotizzabile che i continui rilanci nella coalizione e le perenni diatribe che l’animano, possano mettere in discussione un progetto che soltanto sull’identità si regge e sul ritrovato senso di una comunità politica può avere un senso. Questo è il pericolo che la destra corre. Se non si lo si capisce, allora il rischio dello smottamento può divenire concreto: reggere cinque anni nel clima che si è creato è, in effetti, un’impresa titanica».
Malgieri inquadra uno dei problemi complessi che la Meloni si trova a gestire: quello del rapporto tra gli elementi di fondo di un’identità conservatrice e quella libertà dei contemporanei (ineludibilmente antirazzista, antisessista, antisciovinista, antiomofoba) senza il rispetto della quale una destra non può riuscire a governare una complessa società occidentale. Un vero e articolato partito conservatore sarebbe utile, appunto, a gestire questo rapporto che non è privo di complessità e non si risolve solo con la pur necessaria ripulsa delle volgari banalità di un ufficiale ancora in servizio. Chi per esempio ha militato in un partito che non si chiamava Democrazia multietnica bensì Democrazia cristiana, dovrebbe aiutare a spiegare come la politica non è solo difendere imprescindibili principi di libertà ma anche mantenere uno stretto legame con le proprie radici morali e culturali.
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Sulla Nuova bussola quotidiana Rubens Razzante scrive: «Ci sono anche osservatori obiettivi e neutrali che hanno criticato la scelta di Giorgia Meloni di investire la sorella di un compito così delicato per la gestione di quello che, dati alla mano, è di gran lunga il partito più rappresentativo dell’elettorato. Fratelli d’Italia veleggia stabilmente intorno al 30 per cento e dovrebbe puntare ad aprirsi sempre più alla società civile e al mondo delle professioni, con un approccio inclusivo teso ad allargare il perimetro della sua classe dirigente e a dismettere definitivamente i retaggi di un passato scomodo che fa a pugni con una solida cultura democratica di governo. Arianna Meloni è l’esponente più autorevole di quel cerchio magico e impenetrabile che si è creato attorno al premier e che include anche suo marito, il ministro Lollobrigida, il quale peraltro non fa quasi nulla per passare inosservato e per far dimenticare agli italiani di essere stato scelto anche perché cognato del premier. Alcune sue boutade degli ultimi mesi, delle quali francamente non si sentiva granchè il bisogno, hanno svelato il suo disagio per l’astinenza da attenzioni mediatiche. Non è da escludere che quelle uscite rispondano peraltro al desiderio di far allentare la pressione su Palazzo Chigi rispetto a dossier ben più delicati, a cominciare da quelli economici e legati ai temi del lavoro ma anche da quelli riguardanti l’immigrazione e le alleanze in vista delle prossime europee. Chi porta un cognome ingombrante o ha legami famigliari con i potenti di turno gode indubbiamente di vantaggi indiretti, ma rischia anche di pagare per questo. Si può essere bravi ed essere anche sorelle o cognati del Presidente del Consiglio, quindi sarebbe davvero qualunquistico escludere a priori dall’impegno politico soggetti del genere. Il problema è un altro e riguarda il funzionamento dei partiti. Qualcuno si era scandalizzato ai tempi d’oro di Forza Italia, partito attaccato pesantemente dagli avversari politici e dai media di riferimento in quanto “partito-azienda”, plasmato da Silvio Berlusconi a sua immagine e somiglianza, in funzione della difesa dei suoi interessi e degli interessi delle sue aziende. Si tacciò quella forza politica di non avere neppure una parvenza di democrazia interna, considerato che di congressi nazionali ne aveva fatto solo uno in trent’anni di storia e che la selezione dei vertici avveniva nei pranzi di Arcore anziché in incontri aperti agli iscritti. Quello che sta succedendo in queste ore in Fratelli d’Italia non è molto diverso. Considerato il legame diretto con Palazzo Chigi, scegliere a tavolino e senza alcuna consultazione interna chi debba gestire il primo partito d’Italia appare un brutto segnale. Peraltro anche il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari, esponente di punta del governo e tra i più vicini a Giorgia Meloni, riceve in queste ore l’incarico di curare la comunicazione del governo, visto che il primo settembre il portavoce Mario Sechi traslocherà per diventare direttore del quotidiano Libero. Si nota quindi, una sorta di “reductio ad unum”, con una centralizzazione della guida politica nelle mani della “famiglia allargata” Meloni. L’esatto contrario di ciò di cui il premier avrebbe bisogno per accrescere la sua capacità attrattiva verso gli eletti e i simpatizzanti di altre forze politiche. Un approccio convintamente “padronale”, che fa a pugni con qualsiasi proclama di inclusività».
Le osservazioni di Razzante sono serie, in parte però prescindono dallo stato di forza maggiore in cui la Meloni si trova a navigare. Cioè in un contesto nel quale la politica italiana è stata colpita duramente nel 1992 dall’azione unilaterale ed esorbitante dal suo ruolo di parte decisiva della magistratura. Poi quando si stava assestando con il Partito della Libertà e con l’Ulivo poi Partito democratico, la Repubblica ha subito una nuova catastrofe con la scelta di Giorgio Napolitano di tentare un governo dall’alto (e molto da fuori: vedi Parigi, Berlino e l’amministrazione Obama) della nostra democrazia. Ci troviamo così in una situazione piena di naufraghi non solo della Prima repubblica ma anche della Seconda (con un diffuso effetto del tipo del “morto che afferra il vivo”). Il problema quindi è comprendere come scelte d’emergenza siano di fatto inevitabili, e il compito delle persone che amano la nostra Repubblica, siano di destra o di sinistra, diventi soprattutto quello di fare in modo che le scelte di emergenza non siano definitive ma preparino la strada a partiti e sistemi politici compiutamente democratici.
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