
Meeting, Vittadini racconta le periferie di Jannacci, Guareschi e gli altri

«Quando la giornalista telefonò, il giorno dopo, rispose Margherita: “Dice mio marito che mi ha sposato per ovvie ragioni”, spiegò. “È un po’ poco”, osservò di malumore la giornalista. “Ognuno si sposa come può – replicò Margherita – L’importante è che un uomo sposi sua moglie evitando così che i suoi figli cadano in mano d’estranei”» (Corrierino delle famiglie, Giovannino Guareschi).
Non si può cercare di spiegare ogni cosa. Se ti sforzi di spiegare la vita, inevitabilmente la incasini». Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la sussidiarietà, arriva puntuale all’appuntamento con Tempi. Ciondolando per i corridoi della stazione di Milano si trascina con aria stremata. Arriva da tre giorni di full immersion nella statistica più complessa, roba che manderebbe in pappa il cervello di chiunque. Eppure appena si mette a parlare della nuova mostra che porterà al Meeting, l’energia riporta Vittadini a quello che è e che tutti conosciamo: un fiume in piena. Tentare di arginare la sua esuberanza o mettere ordine al suo pensiero è cosa folle, non farebbe altro che peggiorare la situazione, incasinandola ulteriormente.
“Mondo piccola-Roba minima. Le periferie esistenziali in Giovannino Guareschi e Enzo Jannacci” è il titolo della mostra che Vittadini insieme a un gruppo di amici del tutto particolare, porterà alla prossima edizione del Meeting. Non è nuovo a queste fatiche, ma l’argomento, per chi lo conosce, non è affatto scontato: lo scorso anno il tema era l’Unione Europea, l’anno prima i giovani di fronte alla crisi e quell’imprevedibile istante che li porta a cambiare.
L’idea di accostare Guareschi e Jannacci viene da lontano, ma c’è prima una premessa. Vale per chi legge queste righe e per chi, dal 24 al 30 agosto prossimi, andrà a Rimini per non perdersi l’appuntamento con la XXXV edizione del Meeting. «Questa non è una mostra, noi non vogliamo mostrare nulla. Non prendeteci sul serio, questa è roba minima, un mondo piccolo. Non cerchiamo di spiegare chi erano Giovannino ed Enzo. I protagonisti non sono loro e a parlare non siamo noi curatori, sono direttamente i personaggi di canzoni e racconti dei due autori. I visitatori non devono vedere me, devono incontrare questi personaggi. E per farlo useremo frasi di canzoni e racconti, foto, disegni. E soprattutto un video. Noi vorremmo che la gente non ragionasse, ma incontrando questi personaggi si sentisse guardata. Esattamente come succede nella canzone “Gli zingari” (1968) di Jannacci».
«E allora gli zingari guardarono il mare/ e restettero muti perché subito intesero/ che lì non c’era niente, niente da dover capire,/ niente da stare a parlare, niente da stare a parlare/ c’era solo da stare, fermarsi e ascoltare./ Sì perché il vecchio, proprio lui, lui il mare, parlò a quella gente bizzarra, svilita, parlò ma non disse di stragi, di guerra, di incendi, d’amore, di vita, di morte, di bene. Lui, il vecchio, li ringraziò solo tutti di quel loro muto guardare»
E allora che cos’hanno in comune le puttane, il barbun che portava i scarp de’ tenis, il soldato Nencini, quello in fila in Comune, il prete Liprando, il telegrafista di Jannacci con don Camillo e Peppone, la maestra Cristina, la figlia dei ricchi borghesi eletta Miss alla festa dell’Unità, ma anche molti protagonisti del Corrierino delle famiglie di Guareschi? «È gente apparentemente emarginata, strana, certamente non al centro della vita comune, tutti con una umanità diversa. Ma sono persone che non cedono al soldo, all’interesse, al comodo, alla massa; obbediscono solo a qualcosa che gli viene dettato direttamente dal cuore. Il loro cuore è una periferia, ma allo stesso tempo questa periferia è posta come un centro interessante da guardare. Un problema di oggi è proprio quello di non sapere obbedire al nostro cuore. Siamo schiavi di ciò che abbiamo intorno, del potere, della comodità, dei soldi, degli interessi. Invece i personaggi che vi parlano possono perdere tutto, ma non la propria dignità. Sono persone che obbediscono al cuore a qualsiasi costo».
E così erano i loro autori. Due persone lontane storicamente, culturalmente, politicamente. Ma entrambi emarginati: Guareschi dalla mentalità e dalle ideologie del primo Dopoguerra. Al suo funerale i presenti si contavano sulle dita di una mano. Jannacci dalla soffocante censura democristiana che arrivò a impedirgli di cantare “Ho visto un re” all’edizione di Canzonissima del 1968. È stato snobbato per lungo tempo dai discografici ufficiali, dimenticato dal pubblico della sua area culturale che gli ha preferito personaggi di spettacolo capaci di giravolte ideologiche, pur di rimanere à la page. Entrambi hanno pagato a caro prezzo il fatto di non aver rinunciato agli ideali. Guareschi è stato in prigione pur di non rinnegare quello che aveva scritto; Jannacci alla fine degli anni Sessanta ha rinunciato alla fama pur di non cambiare le sue canzoni. «Censurati, rinnegati, emarginati, ma sempre fedeli a ciò che il cuore diceva loro. Proprio come il Bonetti di Guareschi, un contadino rovinato dal potente di turno che non cede alle avance di Peppone e della sua combriccola, anzi, mostra una nobiltà umana che non viene mai meno, neanche di fronte al sopruso. Il nostro esatto opposto: noi per molto meno diventiamo schiavi del sistema. Siamo molto più pasolinianamente schiavi del potere, incapaci di vedere le lucciole, di obbedire al nostro cuore».
«Un giorno Peppone incontrandolo gli disse: “Bonetti, prima magari non li conoscevi bene e non potevi giudicare. Ma adesso li conosci bene, i signori. Perché rimani ancora nelle file dei loro difensori, invece di venire tra le file dei difensori del proletariato?”. Il Bonetti allargò le braccia: “Così: per la stassa ragione per cui il pesce piccolo che rischia d’essere mangiato dal pesce grosso rimane sempre nell’acqua invece di andare a vivere sopra la terra dove non c’è il pericolo di incontrare pesci grossi”. Peppone scosse il capo: “Non è dunque riuscito a convincerti il Boccia?”. “No, Peppone, il Boccia non è riuscito a convincermi che Dio non esiste. Io continuo a credere nella giustizia divina”. Peppone si mise a ridere: “Se lo sapesse il Boccia, chi sa come si divertirebbe!”. “Lo sa e non si diverte. Perché lo scopo suo e dei tipi come lui è quello di far perdere agli uomini la fede in Dio. Questa è la ricchezza che egli non ha nè può avere e che vorrebbe togliere a chi la possiede per accomunare il maggior numero di gente possibile alla sua squallida miseria”. Peppone cacciò fuori un fischio ammirativo: “Questa è roba filosofica. Dove l’hai letta?”. “Da nessuna parte: me l’ha spiegata don Camillo”. “Ah”, ridacchiò Peppone. “Volevo ben dire! Te l’ha spiegata lui!”. “Sì, ma cosa importa? L’importante è che io l’ho capita”, rispose il Bonetti. Passò la macchina del Boccia e Peppone domandò: “Non ti senti niente, dentro, quando vedi quello lì?”. “Sento pietà per la sua carne maledetta”, rispose il Bonetti. “Anche questo te l’ha insegnato il prete?”. “No, ci sono arrivato da solo”, rispose il Bonetti»
I personaggi di Guareschi e Jannacci non sono persone sfortunate, semplicemente si fanno ferire dalle cose. Sono umani. «L’espediente della normalità non toglie il concetto di periferia: la periferia esistenziale è il nostro cuore, cioè qualcosa che abbiamo ma che non possediamo, non controlliamo. La loro non è la solita retorica dell’emarginato. Quando papa Francesco ha parlato di periferie esistenziali ci ha indicato i bisognosi per farci capire chi siamo. Siamo gente bisognosa. E così fanno i nostri grandi autori. La Milano che canta Jannacci non è la Milano da bere degli anni Sessanta-Ottanta. Lui racconta di tutti i protagonisti di quella città. E tra quelli ci sono uomini e donne lontani, soli. Non lo fa per fare della retorica; lo fa per farci vedere un uomo solo, per farci incontrare la sua solitudine, il suo disagio. Che poi è la nostra solitudine, il nostro disagio. E lo fa con ironia, con gioia, con positività».
«Soldato Nencini, soldato d’Italia/ semianalfabeta, schedato: “terrone”, (…)./ Due o anche tre volte ha chiesto il tenente/ a un suo subalterno: “Ma questo Nencini,/ cos’ha, da sorridere sempre per niente?/ Sorride un po’ perso… magari a nessuno;/ e mangia di gusto ‘sto rancio puzzone!…/ Ma è analfabeta, e per giunta, terrone!”/ E arriva anche il giorno che arriva la posta; (…)/ “Sai, tristi è aspettari: se non t’amo più,/ conviene lasciarsi. Firmato: Mariù”./ Soldato Nencini, soldato d’Italia/ di stanza a Alessandria, schedato: “terrone”,/ si è messo in disparte, sorride un po’ meno;/ ma di tanto in tanto, ti ferma qualcuno/ e gira e rigira quel foglio marrone:/ ti legge un frase; ti dice: “c’è scritto/ ‘Sai, tristi è aspettari: se non t’amo più,/ conviene lasciarsi. Firmato: Mariù’”»
«Jannacci e Guareschi ci raccontano di un’angoscia buona, lieta. Sono due termini che non stanno insieme, ma così è il nostro cuore. L’ironia è questa. Anche la tristezza è una percezione di positività e se stiamo attenti possiamo incontrare personaggi che ce lo ricordano. È lo stesso che accade adesso che stiamo preparando questa “non mostra”. Siamo un gruppo di persone che fino a ieri non si conoscevano, eredi del mondo raccontato da Guareschi e Jannacci. Eredi, non fruitori. Noi facciamo parte di quel mondo. E non facciamo altro che guardare. E così ci sentiamo guardati. Questo spero: che possiate sentirvi guardati, perché questi personaggi hanno qualcosa da dirvi, da insegnarvi, esattamente come è stato per noi».
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3 commenti
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Un piccolo appunto ad una delle canzoni di Jannacci citate nell’articolo: Nencini non è un cognome “terrone”. E’ un cognome tipicamente toscano, toscano come il ciclista Gastone Nencini, quello, per chi ricorda lo sport degli anni ’50 del secolo scorso, che riuscì in un’impresa tutt’altro che facile: vincere un giro d’Italia senza vincere nemmeno una tappa. E qui sorge spontanea una domanda: perché dare ad un “vinto”, come il “soldato” della canzone, proprio il cognome di un “vincitore”, sia pure solo d’una gara sportiva?
Molto bene Enzo Iannacci e il superlativo Giovanninio Guareschi. Meno bene Giorgio Vittadini.
Molto bene Enzo Iannacci e il superlativo Giovannino Guareschi. Scarso Vittadini.