Meeting. Padre assassinato, madre con la Sla: ma Stefano «non si sente uno sfigato»

Di Leone Grotti
23 Agosto 2012
La malattia è una condanna o può essere un'occasione impensabile per scoprirsi «grato di tutto ciò che abbiamo»? Due storie che hanno sconvolto il Meeting.

Al Meeting è impossibile prevedere come andrà una giornata. Se stamattina l’incontro di punta, almeno sulla carta, era in Auditorium con il ministro federale canadese o in A3 con il ministro Fornero, la vera rivelazione è stato quanto avvenuto in Sala Neri, stipata fino all’orlo dalla gente che si è seduta per terra, in ogni corridoio o addossata ai muri, e il cui incontro è stato seguito sui teleschermi da centinaia di persone che non hanno trovato posto in sala. Nessun politico, nessun grande personaggio di cultura, ma due storie di uomini che «nell’esperienza del limite rappresentato dalla malattia» hanno scovato un’impensabile «apertura all’infinito».

Così Javier Gutierrez, responsabile dell’associazione Medicina e persona in Spagna, chirurgo ortopedico dal 1992, ha parlato delle sue vocazioni: quella all’accoglienza, scoperta nel 1986 proprio al Meeting, dove incontrò l’associazione Famiglie per l’accoglienza, e che l’ha portato a prendere due bambini in affido, e quella alla medicina. «Andare al lavoro per me era diventato un peso – racconta – una ruotine insopportabile fino a quando non ho incontrato Felice (Achilli, moderatore dell’incontro, ndr) che ha cambiato il mio modo di intendere la medicina: ho iniziato a curare persone, non più malattie».

Racconta così di Suerlem, 24 anni, in ospedale per fratture scomposte: «Una situazione clinica che mi era capitata centinaia di volte. Ma di lei mi colpiva che era sola, che nessuno andava mai a trovarla. Così ho cominciato ad andare io da lei tutti i giorni». Scopre che Suerlem, brasiliana arrivata in Spagna con un figlio e un compagno, che poi l’ha abbandonata, era sola e senza mezzi per vivere. «Insieme agli amici di Medicina e persona l’abbiamo aiutata a trovare un posto dove vivere, in una casa di religiose, io le ho offerto la mia casa per vedere suo figlio al sabato una volta a settimana. E la nostra amicizia si è spinta così avanti che quando il suo fidanzato ha voluto chiederla in sposa, è venuto da me. Le ho fatto da padrino al matrimonio e al battesimo di suo figlio, e ora lei, che era disperata, mi chiama padre».

È solo un incontro fortunato, casuale, fortuito? «No – risponde Gutierrez – nella vita tutto è possibilità di apertura all’infinito e la malattia è un luogo privilegiato. Il limite che la malattia rappresenta mi interroga sempre sul senso della vita e del dolore e ho capito che, anche se non sapremo mai del tutto perché certi fatti drammatici accadono, questi sono il modo in cui Dio ci chiama e ci apre all’infinito. Ecco la vocazione. So che la vita comunque deve finire, ma anche se è doloroso e difficile più la doni liberamente agli altri e meno la perdi con la morte».

Stefano ha 30 anni, è ingegnere. Quand’era piccolo suo padre è stato ucciso a coltellate e sua madre, che ha cresciuto da sola lui, insieme ai suoi cinque fratelli e sorelle, è stata colpita 4 anni fa da Sclerosi Laterale Amiotrofica. «Oggi non può più muoversi, né deglutire. Si nutre grazie a un tubo collegato allo stomaco e respira grazie a una macchina collegata ai polmoni. Parla a fatica muovendo gli occhi, bisogna badarla 24 ore su 24. Questa malattia è un male, come la morte di mio padre, eppure io posso dire che nella vita non sono uno sfigato».

E racconta. Racconta delle certezze che aveva e che si sono sgretolate, del dolore, della difficoltà e di una domanda: posso ancora essere felice? «Che equivale a un’altra domanda: Gesù è risorto davvero o no? La malattia è così diventata una sfida». Una sfida che ha insegnato a Stefano ad amare senza tornaconto, «a servire chi mi ha messo al mondo in un modo che mai mi sarei immaginato», «a farmi riscoprire un ottimo badante», «ad approfondire il rapporto con i miei fratelli», «a farmi gustare di più il mio lavoro perché da ogni cosa aspetto una risposta per quello che mi è successo» e a «sperimentare il centuplo quaggiù nel sorriso di mia madre, che ora parla poco, pochissimo, ma che anche stando in silenzio mi comunica che del Mistero che fa tutto ci si può fidare. E me lo dimostra perché è felice: felice se la saluti, se la lavi, se le fai ascoltare la musica, se le racconti la tua giornata».

«Io guardo mia mamma che offre tutta la sua vita – continua Stefano – e capisco che la cosa che conta di più è dire di sì al Mistero. Per questo la malattia non è un limite, anzi, si porta dentro una possibilità: offrire tutto per salvare il mondo. E anch’io che assisto un malato mi accorgo che il sacrificio di mia mamma mi apre a una disponibilità alla vita e mi fa amare di più tutto quello che ho da fare. Forse la vita mi sta battendo per 3-0, ma la strada è ancora lunga e io già sono grato per tutto quello che ho. Ecco perché non sono uno sfigato».

@LeoneGrotti

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