
Meeting. Nessun futuro alla “Terminator”, la nostra finitudine dà senso al qui e ora

Scrive Olivier Rey che non bisogna avere paura del transumanesimo, che è una cosa che si accartoccerà su se stessa, ma al Meeting di Rimini non ne sono davvero convinti e perciò hanno voluto un incontro intitolato “La macchinizzazione dell’uomo e l’umanizzazione della macchina”. A dare spiegazioni sono stati chiamati un vecchio leone come Miguel Benasayag, filosofo e psicanalista franco-argentino tradottissimo in Italia, e un giovane leone come Paolo Benanti, francescano del Terz’Ordine e docente di Bioetica ed etica delle tecnologie alla Pontificia Università Gregoriana.
Scegliere tra ibridazione e colonizzazione
Benasayag ha scritto libri come Funzionare o esistere, Il cervello aumentato-L’uomo diminuito, La tirannia dell’algoritmo, ecc.: si direbbe l’uomo giusto al posto giusto. Ha spiegato che non bisogna temere un futuro alla Terminator e simili, dove le macchine sviluppano la coscienza e poi aggrediscono gli esseri umani. Una macchina si limita a funzionare secondo i parametri dati, quando vince o perde una partita a scacchi con un essere umano non sa di avere vinto o perso.
Il problema è un altro: «Delegando troppe funzioni alle macchine diventeremo meno capaci di immaginazione. Le macchine non si trasformeranno in esseri coscienti, ma trasformano noi, modificano il nostro modo di percepire il mondo nella misura in cui ci adattiamo a loro. Abbiamo fatto un esperimento con taxisti di Londra e di Parigi: per due anni i primi hanno lavorato con l’ausilio del navigatore satellitare, i secondi senza. Alla fine è risultato che il senso dell’orientamento dei primi era diminuito, che i loro nodi sottocorticali nel cervello si erano un po’ atrofizzati. Non si tratta di essere tecnofobi, ma di porsi la seguente questione: come posso avvalermi delle macchine senza che le mie facoltà si atrofizzino, senza essere colonizzato dalle macchine? Indietro non si torna, l’umanità pretecnologica non tornerà: ma si può ancora scegliere fra ibridazione e colonizzazione».
La nostra finitudine ci protegge dal diventare macchine
Non è che la parola “ibridazione” incoraggi molto: sembra avvicinare l’incubo dei cyborg anziché allontanarlo. Ma nel prosieguo del discorso il filosofo franco-argentino si riscatta facendo l’apologia del limite umano, e persino della “falla” umana, cosa completamente diversa dal difetto, che è tipico della macchina. «Il transumanesimo promette l’immortalità, ma la vita senza morte non è vita, perché senza limiti non c’è vita. Non bisogna confondere il limite col confinamento: c’è confinamento quando ci è impedito di sviluppare una potenzialità che è in noi. Ma oggi il cortocircuito fra i due termini fa immaginare una vita senza limiti che sarebbe un cancro, una barbarie, una psicosi. La finitudine della nostra singolarità è ciò che dà senso al qui e ora. La finitudine è un limite che protegge il vivente dal diventare una macchina».
Gli ha fatto eco Benanti: «La macchina di Turing, tirata in ballo da chi vorrebbe mettere uomo e macchina sullo stesso piano, computa solo problemi che possono essere interrotti e poi ripresi. La macchina può essere spenta e poi riaccesa, l’uomo no. La coscienza umana è sempre accesa finché non viene meno con la morte, non può essere interrotta e ripresa come nel caso delle macchine».
«La funzione del vivente è esistere»
La posizione di Benasayag, che ha un passato nella guerriglia guevarista in Argentina, sui limiti e sulle “falle” umane ha risvolti politici decisivi. «L’orizzonte della macchina è funzionare. Invece la funzione del vivente non è solo di funzionare, ma di esistere, cioè essere qui e ora cercando il senso, domandando il senso perché non lo conosciamo. Per la macchina non esiste la possibilità di non funzionare, mentre la “falla” è strutturale al rapporto dell’uomo con la realtà, la “falla” è la condizione stessa della nostra esistenza. Mentre i difetti della macchina possono e devono essere corretti perché funzioni».
«Dobbiamo dimenticare i futuri utopici dove la giustizia trionfa definitivamente: la violenza, il negativo, l’odio, sono dentro di noi e ci saranno sempre. Non ci può essere luce senza ombra: un essere umano vero, che non è ridotto a macchina, porterà sempre dentro di sé il conflitto e la negatività. Dunque dobbiamo accettare il conflitto proprio perché la vita non diventi una lotta continua mentre sogniamo le nostre utopie. Quando pensiamo all’armonia sociale, al bene comune, non dobbiamo immaginare qualcosa che è, ma qualcosa da costruire come progetto condiviso. Questo è l’unico modo per sfuggire al meccanismo per cui si cerca nell’identità e nella costituzione del nemico la risposta alla nostra paura del futuro: l’odio per il nemico è il più grande ansiolitico che si conosca, ci permette di liberarci dell’angoscia per la nostra esistenza». Insomma, l’agnostico Benasayag ragiona come i credenti che affermano l’esistenza nell’uomo del peccato originale. Si dimostra loro alleato nel compito di tenere lontano da noi il mondo di “Arancia meccanica”.
«Se tutto è possibile, niente è reale»
Rincara la dose Benanti: «I social monetizzano i sentimenti umani. Conoscono benissimo il meccanismo del desiderio mimetico che René Girard ha portato alla luce, la successione di ammirazione, invidia, uccisione collettiva del capro espiatorio, e la sfruttano per fare soldi attraverso Facebook, ecc. Sfruttano il meccanismo dell’armonia sociale frutto del linciaggio della vittima sacrificale (le shit storm in rete), che corrisponde a un’immissione di odio nella società. Come tassiamo le aziende inquinanti, che realizzano profitti immettendo scarti e residui nell’ambiente, così dobbiamo tassare fortemente le piattaforme che realizzano i loro profitti immettendo nella società quello scarto che è l’odio sparso a piene mani nei social network».
La conclusione è paradossale: «Non dobbiamo temere l’intelligenza delle macchine, dovremo inquietarci veramente il giorno che le macchine saranno stupide come noi», sorride Benasayag. «Finché calcolano meglio di noi, non è un problema. Quando ci faranno concorrenza sul piano della stupidità, solo allora dovremo preoccuparci. E’ la stupidità che fa dell’uomo un’entità che ha esistenza; è la stupidità che ci permette di amare!». E per chi non si accontenta di questa conclusione, c’è sempre la possibilità di riflettere su due aforismi dei relatori dai riflessi perlacei: «L’amicizia nasce quando nell’altro da me vedo un ente che non ha uno scopo, ma un senso» (Benanti). «Se tutto è possibile, niente è reale» (Benasayag).
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