Meeting. Gregoire: «Dio è venuto a cercarmi nel mio buco»

Di Rodolfo Casadei
27 Agosto 2022
All'incontro sul disagio psichico, la commovente testimonianza del gommista del Benin che libera i matti dalle catene
Gregoire Ahongbonon al Meeting di Rimini

Da parecchio tempo non capitava di vedere il conduttore di un incontro del Meeting di Rimini commuoversi fino ad avere gli occhi umidi. È successo lunedì nel corso dell’appuntamento “Dalla parte dell’uomo. Una paternità che cura”, che ha trattato il tema del disagio psichico.

Di fronte a un filmato dai toni epici e, come si diceva una volta, un po’ hollywoodiani che mostrava la condizione dei malati psichiatrici in Africa incatenati e umiliati, poi liberati e accompagnati nel cammino della propria personale resurrezione da un buon samaritano di nome Gregoire Ahongbonon, lo psichiatra friulano Marco Bertoli, direttore del Dipartimento di salute mentale di un’azienda sanitaria di quella regione, non ha potuto trattenere la sua emozione.

E con ragione: da un quarto di secolo Bertoli sostiene e affianca Gregoire, il cristiano beninese grazie al quale migliaia di esseri umani in Costa d’Avorio, Benin e Togo sono stati affrancati dalle catene sia fisiche che metaforiche della loro condizione di malati mentali.

Inginocchiarsi davanti all’altro

Assieme a loro c’era un collega di Bertoli, lo psichiatra Cesare Maria Cornaggia, professore di Medicina fisica e riabilitativa all’università di Milano-Bicocca. Tutti e tre hanno sfondato i confini del titolo dell’incontro per dire e testimoniare che la cura coincide con una relazione, paterna ma non solo. «Un malato di uno dei centri che abbiamo creato mi ha detto: “Sei più di un padre per me!”», ha raccontato Gregoire. «La cura coincide col riconoscere l’altro, inginocchiarsi davanti all’altro!», hanno detto all’unisono gli psichiatri Bertoli e Cornaggia.

È quello che ha fatto centinaia di volte in vita sua il gommista Gregoire, all’inizio digiuno di sapere psichiatrico ma ricco del dono della Grazia, piegandosi sui malati mentali sdraiati sui marciapiedi delle grandi città dell’Africa occidentale o immobilizzati nelle capanne più maleodoranti dei villaggi dell’interno, legati agli alberi delle piantagioni dove sedicenti guaritori promettono di liberarli dagli spiriti malvagi che si sono impossessati di loro.

La bella e il saggio

Li ha riconosciuti come persone, si è caricato della loro sofferenza, li ha aiutati a riscoprire le loro buone qualità: Gregoire ricorda a memoria il nome di centinaia dei suoi assistiti, e al nome accompagna per ciascuno un aggettivo: “la bella”, “la grande”, “il forte”, “il coraggioso”, “il saggio”, ecc. E oggi molti di loro sono infermieri o addirittura direttori all’interno dei centri; moltissimi altri sono rientrati guariti presso le loro famiglie.

«C’è sempre del positivo di cui l’altro è portatore, ma nessuno gli ha mai insegnato a vederlo in se stesso», ha spiegato Cornaggia. «Per questo è essenziale imparare a riconoscersi, a comunicare. Gli esseri umani hanno bisogno di comunicare. La comunicazione può fallire, ma il bisogno di esprimersi e farsi comprendere rimane. Finché si riesce a realizzare il “terzo relazionale”, luogo dove la relazione diventa reciproca, condizione perché sia il malato che il terapeuta escano diversi dall’incontro, l’uno ritrovando le sue capacità, l’altro arricchendosi come persona».

Perché sono amati

A ostacolare i percorsi di cura ci sono anche una prassi medica e una cultura generale inadeguate: «Di fronte al sintomo, la prima reazione nostra come società è di eliminarlo, di sopprimerlo. Non si accetta il fatto che il sintomo psichiatrico è una comunicazione piena di significato; quando mancano le parole per comunicare il nostro disagio, la nostra persona si esprime attraverso i sintomi. Oggi la medicina tende a sopprimere i sintomi, piuttosto che ascoltarli. Così non si arriva al “terzo relazionale” che rende possibile al sofferente una nuova narrazione di sé, e quindi nuove possibilità di vita. Che rende possibile al terapeuta e al paziente di passare da persone che fanno delle cose per essere amati, a persone che agiscono perché sono stati amati».

Per Gregoire quest’ultima cosa non è stato il punto di approdo, ma il punto di partenza. Ha deciso di dedicare la vita ai più sofferenti dei sofferenti quando, dopo una crisi personale che lo aveva portato sull’orlo del suicidio, ha riscoperto con l’aiuto di un missionario e della sua famiglia di essere amato da Dio. «Anch’io avrei potuto essere tra i malati che sono abbandonati o incatenati, ma ho incontrato qualcuno che mi ha riconosciuto e che ha creduto in me. Se i malati avessero incontrato un prete come ho incontrato io, forse non si sarebbero ammalati. Anch’io stavo per impazzire e sarei potuto finire incatenato! Dio è venuto a cercarmi nel mio buco, come io poi sono andato a cercare i sofferenti nei loro buchi, nelle capanne e per strada. Allora tutti dobbiamo dare agli altri quello che ci è stato dato, l’amore e la Grazia di Dio! Tutto quello che faccio, non sono io che lo faccio, è Dio che lo fa. L’associazione San Camillo de Lellis è opera di Dio, non è opera umana».

Uno alla rotonda di Bouaké

Come in tutti gli incontri che da decenni tiene in giro per il mondo – compreso uno che si è svolto al Parlamento europeo – Gregoire alla fine del suo intervento tira fuori da una borsa una rumorosa catena con lucchetto. La agita e la fa tintinnare davanti all’uditorio intimidito. «Queste sono le catene che imprigionano i nostri fratelli malati, queste sono le catene che imprigionano il nostro cuore indurito. Avevo visto tante volte i malati mentali per strada, ma non li guardavo per davvero. Fino a quel giorno del 1990 quando ne ho guardato uno alla rotonda di Bouaké, e ho visto in lui Cristo! I malati fanno paura, ma non si può avere paura di Cristo. Da quel giorno li ho sempre abbracciati».

«Le catene non sono solo in Africa, le catene sono anche qui, ci sono tanti modi di tenere incatenati i malati mentali anche qui in Europa, tanti modi di tenere incatenati noi stessi», ha ammonito Bertoli. A riprova che la partecipazione commossa non è un impedimento alla comprensione di una realtà drammatica come quella della malattia mentale, ma anzi contribuisce alla lucidità del giudizio. La passione per l’uomo fa capire l’uomo meglio dello spirito obiettivo e compassato. 

Foto Meeting

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