
Il Deserto dei Tartari
Meditazione di Natale al tempo del Covid
Ne hanno fatta di strada, i politici italiani, dai giorni in cui Matteo Salvini comiziante maneggiava i rosari con una disinvoltura fonte di turbamenti: adesso premier e ministri tengono brevi omelie per insegnare ai governati il senso profondo del Natale e illustrare la vera fede, tutta spirituale e ascetica, al gregge confuso dei credenti. Mai la classe politica italiana, nemmeno ai tempi della Democrazia Cristiana, si era impegnata così tanto per la salvezza delle anime oltre che per la salute dei corpi (non si direbbe lo stesso per quella dell’economia, da cui quella dei corpi dipende in grandissima parte). Reagire con l’insofferenza o con l’ironia al sermoncino del vescovo Conte (tipica figura medievale) e alla predica di san Francesco Boccia tuttavia è limitativo. La superficialità paternalistica degli interventi dei politici richiama la necessità per ognuno di noi di confrontarsi più seriamente con l’avvenimento del Natale di Gesù che quest’anno coincide col tempo di una pandemia. Nessuno di noi ha le qualità di teologo e di contemplativo come un padre Raniero Cantalamessa, il predicatore della casa pontificia recentemente creato cardinale, né la profondità meditativa e il rigore catechetico di un monaco come padre Serafino Tognetti. Ma a partire dalla modestia dei nostri intelletti e dalla nostra difettiva condizione spirituale non è sbagliato cercare di leggere i segni dei tempi e di cogliere le analogie fra il momento che stiamo vivendo e le vicissitudini della Sacra Famiglia. È un esercizio utile anche ai non credenti e ai devoti di altro credo, in quanto potrebbe rappresentare un aiuto a essere più liberi dai condizionamenti del potere e da quelli del pensiero gregario, divenuti schiaccianti di questi tempi.
La prima analogia che colpisce, come ha notato il filosofo Martin Steffens, è l’esperienza dell’inospitalità che noi uomini del 2020 facciamo oggi a similitudine di quella che fece la Sacra Famiglia. Anche a noi, come a Maria e Giuseppe, sono state e in molti casi ancora sono chiuse tutte le porte: scuole e università, teatri e musei, negozi vari ed esercizi della ristorazione, palestre e piscine, case degli amici e dei parenti e in certi momenti persino le gli edifici di culto sono diventati inaccessibili. In molti casi anche la casa in cui viviamo è diventata inospitale: se uno dei residenti è stato testato positivo al tampone, se la app Immuni vi ha avvisato che avete incrociato un malato in panetteria o alla cassa del supermercato, anche casa vostra diventerà poco abitabile, perché dovrete prendere una serie di meticolose precauzioni che vi isoleranno dalla vostra stessa famiglia. Ricordo che durante un pellegrinaggio a Betlemme la nostra guida spiegava che la mancata accoglienza, anche da parte dei parenti, di Giuseppe e Maria quasi sicuramente non era dipesa solo dall’affollamento dovuto al censimento, ma dalla condizione di lei che era sul punto di partorire: la donna ebrea si ritrova in stato di impurità (tumah) per sette o per quattordici giorni (a seconda del sesso del neonato) dopo il parto, e tale impurità si trasmette anche per contatto. Non so se la guida abbia espresso in maniera adeguata la dottrina giudaica al riguardo, ma l’analogia col tempo che stiamo vivendo sarebbe evidente: anche a noi sono preclusi i contatti, anche noi siamo tenuti a distanza e teniamo gli altri lontano da noi per non trasmettere quella forma di impurità che è la positività al virus del Covid-19.
Anche noi, come Giuseppe e Maria, oggi ci sottomettiamo con mansuetudine (la grande maggioranza) agli ordini talvolta cervellotici del potere. Un censimento che impone alla gente di registrarsi non già dove risiede, ma nel luogo di origine della stirpe di appartenenza, avrà una sua logica amministrativa, ma certamente non è ragionevole per una coppia con la moglie incinta al nono mese costretta a percorrere 150 km lungo strade niente affatto sicure. Ma non è molto più ragionevole una norma che permette di affrontare il virus con mascherina e disinfettante fino alle ore 22, ma non dopo tale ora, quando scatta il coprifuoco; un’autorità che ordina ai commercianti di attrezzarsi con vari dispositivi per riaprire ed esercitare in condizioni di sicurezza la propria attività, e poi dopo che gli esercenti hanno investito soldi per mettersi in regola li chiude di nuovo; un decreto che autorizza a rompere la quarantena per andare dal tabaccaio a comprare le sigarette ma vieta di uscire di casa per andare in chiesa, a meno che questa non si trovi lungo il tragitto per andare dal tabaccaio.
Anche noi come Giuseppe e Maria abbiamo trasgredito alcune regole, ma (normalmente) senza spirito di provocazione: di nascosto, senza farlo sapere in giro, passando sotto ai radar. Loro si sono insediati in un alloggio che non aveva l’abitabilità, non hanno notificato alle autorità i loro spostamenti e hanno attraversato la frontiera con l’Egitto senza passaporto. Noi siamo andati di sfroso a casa dell’anziana madre vittima della depressione per l’isolamento, abbiamo ricevuto la vietata visita di una figlia che aveva bisogno di sostegno, insieme agli amici abbiamo guardato in tivù la partita della squadra del cuore, attenti a non gridare e a non far scivolare la mascherina; abbiamo partecipato a una Messa clandestina officiata da un sacerdote amico insieme a pochi fidati fratelli nella fede (il noi è puramente retorico: non sto confessando nessuno dei suddetti comportamenti).
Suggerisce qualcosa anche la figura dei magi, saggi dell’Oriente che avendo scrutato i cieli vengono a rendere omaggio al neonato re dei Giudei e che la tradizione, andando al di là della lettera del Vangelo di Matteo, ha voluto che fossero in numero di tre e che ha trasfigurato in re, per far coincidere la loro visita con la profezia del salmo 71: «I re di Tarsis e delle isole porteranno offerte, i re degli Arabi e di Saba offriranno tributi. A lui tutti i re si prostreranno, lo serviranno tutte le nazioni». Dunque i magi sono allo stesso tempo re, sacerdoti e scienziati; riassumono in sé il potere politico, quello religioso e quello del sapere. Ditemi voi se non fanno venire in mente i governanti di oggi, intenti a cumulare su di sé le prerogative del ruoli politico, religioso e scientifico in nome della lotta alla pandemia.
Infine abbiamo avuto e ancora abbiamo anche noi la nostra strage degli innocenti, non proprio innocenti ma quasi. Nel nostro caso non si tratta dei bambini sotto i due anni di età, che Erode avrebbe ordinato di uccidere per essere sicuro di eliminare Gesù, ma degli anziani. Alla data del 25 novembre (ultimo dato completo disponibile l’1 dicembre scorso) l’Italia aveva registrato un totale di 52.028 decessi per Covid o con Covid; di questi ben 42.657 (cioè l’82 per cento) riguardavano persone che avevano più di 70 anni. Sappiamo bene che quanto al peccato gli anziani non sono immacolati: hanno avuto tutta la vita per commetterne. Nel racconto di Gesù che salva l’adultera dalla lapidazione pronunciando le parole «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei» (Gv 8,7), viene anche raccontato che «udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi». (Gv 8,9) Gli anziani se ne vanno per primi perché sono consapevoli di essere peccatori, i più giovani se ne vanno per ultimi a significare che avendo vissuto di meno hanno anche peccato di meno. Ma se non guardiamo al cumulo e invece fotografiamo il presente, non si può negare che un anziano è più innocente di un giovane. Il vecchio commette meno peccati del giovane sia per la ragione pratica e superficiale che la fragilità fisica lo tiene alla larga da un lungo elenco di tentazioni, sia per la ragione più profonda che l’età gli ha portato in dono la saggezza che gli permette di non provare più attrazione per azioni e comportamenti che per esperienza sa non essere portatori della felicità ricercata. In questo senso l’olocausto degli anziani ai tempi del Covid è una strage dei relativamente innocenti.
Ma qual è il senso di tutti questi paralleli e analogie, qual è la morale del discorso, chiede il lettore un po’ spazientito come il professore della storiella del Cavaliere bianco e del Cavaliere nero di Gigi Proietti. Di tutto questo cosa dobbiamo trattenere di importante per noi di fronte al Natale? Per quel che capisco io, la morale è che il mondo – inteso nel senso del prologo del Vangelo secondo Giovanni: «Il mondo fu fatto per mezzo di Lui, eppure il mondo non lo riconobbe» – non accetta il Cristo che noi battezzati e cresimati portiamo in noi non per tenercelo ma per comunicarlo agli altri. Dobbiamo farcene una ragione, non cercare inutili accomodamenti, e partorire anche noi Gesù per il mondo che non lo vuole, nelle precarie condizioni che ci toccano.
La morale è che puoi anche essere un re sacerdote scienziato che si sente in diritto di governare i corpi e le anime dei cittadini, ma se prima non ti inginocchi davanti a Chi è più grande di te, all’unico Salvatore, la tua pretesa apparirà in breve ridicola e il popolo si ribellerà alla tua mediocrità altezzosa.
La morale è che certamente, come scrive Charles Péguy nel Mistero dei santi innocenti, i bambini massacrati da Erode hanno un posto privilegiato davanti al trono di Dio perché si sono presentati a Lui senza macchia alcuna, purissimi, («O Santi Innocenti voi sarete dunque i soli – Santi Innocenti voi sarete dunque i puri – Santi Innocenti voi sarete dunque i bianchi e senza macchia»), ma anche per noi non più puri, noi che lottiamo per ritornare immacolati come bambini, c’è posto al cospetto di Dio. E la nostra morte può essere sacra e corredentrice come quella dei Santi Innocenti. La differenza è che per essere accolti nella gloria del Signore loro non dovettero decidere nulla, noi invece dobbiamo acconsentire a quell’inaccettabile che è la nostra morte.
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