
Il medico che fabbrica esseri umani: «Prima li faceva Dio. Ora li faccio io»

«Facevo il mio solito lavoro, poi uno si rende conto vedendo il film che il mio solito lavoro è quello di fare essere umani, in forma piccola con gli embrioni e in forma grande con le persone che transitano [iniziano un percorso di transizione di genere, ndr]. E forse non è un lavoro come tutti gli altri, solo vedendolo uno se ne rende conto, perché lo fa tutti i giorni. Detto un po’ brutalmente è un lavoro che fino a pochi anni fa lo faceva la divinità, quello di fare gli esseri umani. Adesso lo fanno anche gli uomini, però per me è un lavoro normale». A parlare al pubblico di Bologna è il dottor Maurizio Bini, durante il dibattito che martedì 8 aprile è seguito alla proiezione del film GEN_ di cui è protagonista.
La pellicola, diretta da Gianluca Matarrese e presentata al Sundance Film Festival, esplora la quotidianità del lavoro del dottor Bini all’ospedale Niguarda di Milano, il rapporto con pazienti che vivono l’esperienza di una fatica a concepire, e quindi ricorrono alla fecondazione assistita o alla crioconservazione, e con pazienti che affrontano un percorso di transizione di genere.
Il lavoro del dottor Bini: fare esseri umani
«Ciò che accomuna il percorso di fecondazione assistita e quello di transizione di genere è l’assunzione di ormoni ad alte dosi», spiega Bini. E Donatella Della Rata, antropologa e sceneggiatrice del film, approfondisce: la triptorelina, tanto incriminata per i casi di transizione di genere in ragazzi in età puberale, «è lo stesso farmaco che si dà alle donne che cercano di fare la fecondazione in vitro per bloccare il ciclo. È la stessa cosa, cambia solo la lettura sociale dell’ormone. Viene accettato nel caso della fecondazione in vitro perché è accettato un contratto tra due persone eterosessuali, mentre nel caso della transizione di genere non è accettato e ostacolato da un governo come questo».
Gli ormoni, dunque, sono un elemento cruciale. Il film indugia ripetutamente a zoomare sugli zaini e sulle borse dei pazienti che entrano vuoti a colloquio con Bini ed escono pieni zeppi di farmaci. Escono anche accarezzati dall’empatia di Bini, capace di accoglienza e amabilità, capace di parlare usando i pronomi adeguati, autorevole nell’affermare che il suo compito è fare la cosa giusta. E nel suo mestiere significa, in certi casi, stare sul bordo della legge. Presidia coi guanti questo confine «perché non si possono far passare tutti i desideri, ma non si possono ostacolare tutti i desideri». Tra il giusto e il legale, sceglie il giusto. Aggettivo vertiginoso da tenere nelle proprie mani, per quanto guantate.
«È medicina di confine, sulla quale non sparano proiettili, ma cavolate ne sparano tante», condivide Bini col pubblico di Bologna. «È una medicina sulla quale tutti hanno qualcosa da dire, su emorroidi e tonsille non ho mai sentito dibattiti in televisione». Forse perché, ci scusino i proctologi e gli otorini, il senso comune delle persone è sufficiente per rendersi conto che toccare la vita e l’identità di una persona è davvero un presidio su cui stare all’erta, per il bene della comunità.
Il docufilm GEN_
Il docufilm GEN_ si apre nel silenzio dei boschi dove il dottor Bini va in cerca di funghi, è un tempo lento di osservazione e contemplazione. La sua è una mano delicata e accurata nel raccogliere i piccoli tesori del bosco, metafora implicita di una cura attenta verso presenze che spuntano e chiedono di essere notate.
L’incanto finisce con repentina brutalità, e a romperlo è la voce della premier Meloni che tuona forte nel dire che i figli non sono prodotti da banco. Il dottor Bini l’ascolta alla radio recandosi al Niguarda in auto, nel reparto dove lavora con dedizione instancabile. E qui la regia imposta un ritmo serrato di storie che si susseguono. Voci che hanno dentro poemi omerici entrano, parlano ed escono dallo studio di Bini. La narrazione è incalzante, veloce.
L’impressione dello spettatore è quella di assistere all’esibizione di una collezione di tanti piccoli funghetti. Per ogni paziente c’è un accenno di dialogo, qualche spunta sui moduli, una carezza di umorismo molto empatico, scorta abbondante di medicine. Avanti il prossimo.
Avanti il prossimo, sulla catena di montaggio
«Quando qualcuno fa una critica sul film», osserva il dottor Bini, «il regista li minaccia di mandare la copia di 4 ore e 20 minuti del documentario. Perché in realtà il film è iniziato in una dimensione molto più corale, con molti più personaggi: gli psicologi, gli andrologi, gli avvocati. Poi per motivi loro, di scelta artistica, hanno stretto su una visione più emotiva».
Altro che minaccia, sarebbe una gran cortesia. Gradiremmo molto la versione estesa, quelle ore in più che indugiano nella dimensione corale di ascolto e di discernimento dietro ogni singolo caso. Gradiremmo avere un assaggio di tutta la lentezza e le pause che meritano queste storie. La scelta artistica di stringere l’inquadratura appare come una riduzione di sguardo che trasforma in catena di montaggio percorsi che evidentemente hanno sussulti, frenate, attese, anni di dolore. Questo tesoro umano non può diventare scarto di montaggio, noi aspettiamo l’extended edition.
Transizioni, ormoni, embrioni
Intanto eccoci travolti da un pellegrinaggio di anime.
Una paziente ha fatto la transizione dal maschile al femminile, le procura fastidio che il membro maschile di cui è ancora dotata abbia delle erezioni. Confessa di coprirsi il pube nell’intimità col fidanzato per non metterlo a disagio. «Metti la crema in una zona dove non hai silicone», le suggerisce Bini, confermandole che la sua bellezza non ha bisogno di protesi.
C’è una coppia in difficoltà ad avere figli. Anche questa volta la fecondazione assistita non è andata bene. «La gravidanza è andata via», conferma Bini, ma gli occhi della ragazza che si asciuga il gel dalla pancia dopo l’ecografia non sono quelli di chi immagina la gravidanza come una signora che si è incamminata altrove. Ha proprio gli occhi di una che ha perso un figlio. Per questo il dottore redarguisce con gentilezza: li aveva avvertiti di non essere felici, la felicità deve crescere con il bambino. Embrione piccolo, felicità piccola. «Ci riproviamo il prossimo mese?», chiede la donna.
C’è un ragazzo timido che abita in un paesino di montagna e sta facendo la transizione verso il femminile. Confessa che è questione di vita o di morte. Il rapporto col padre è difficile, Bini rassicura: è giusto che un padre si preoccupi. Quanto alle medicine, la ragazza-in-divenire dichiara di prendere solo psicofarmaci. «Strano, mi sembra una persona così equilibrata», chiosa il dottore, andando a procurarle la scorta di farmaci giusti per il suo caso.

Il violista in sala operatoria. «Agli embrioni piacerà»
Non manca un intermezzo poetico. Compare un musicista, prima viola della Scala: suona con maestria in sala operatoria, accompagna le procedure per l’impianto degli embrioni nella fecondazione assistita. Bini è entusiasta: «Agli embrioni piacerà». Attecchiranno meglio, proprio come le mucche sono più generose di latte se accompagnate da un sottofondo classico.
Chissà che musica ascolta la ragazza che vede il suo volto un po’ vuoto. Frase che evoca un universo emotivo, però nello specifico lei vorrebbe più barba per completare la sua transizione al maschile. Ha annotato il nome di un farmaco che sortisce l’effetto desiderato. «No, i peli da minoxidil sono brutti», commenta Bini. Avanti un altro.
C’è una donna che ha lasciato il fidanzato con cui aveva provato la fecondazione assistita. Ora è sola, vuole centrarsi su di sé. È nello studio di Bini per congelare i suoi ovuli, in attesa di quello che le riserverà la vita. Impariamo che crioconservare è un atto di speranza.
«Se mangi ghiande non sei responsabile della deforestazione»
C’è chi ha scelto la fecondazione assistita, ma ha dei dubbi etici e desidera scongelare solo due uova per volta. Forse è ancora una di quelle donne che crede che un embrione sia già un bambino, suppone una collaboratrice di Bini. E dal luminare riceve un oracolo tutto da decifrare: «Io credo che una ghianda sia già una quercia, ma se mangi ghiande non sei responsabile della deforestazione». La perifrasi metaforica è un ottimo espediente per ostentare chiarezza intellettuale e al contempo confondere le acque, soprattutto se il soggetto si sposta dall’umano al vegetale.
A quanto pare, però, di fronte a certe deforestazioni ci si deve sentire molto responsabili e certe ghiande vanno guardate con tutta la premura che spetta agli esseri umani. Durante il dibattito post film, il dottor Bini si è detto orgoglioso e rattristato di essere stato una voce solitaria che si è battuta per poter ospitare in Italia gli embrioni conservati nei centri per la fertilità di Gaza, sottolineando la disparità di trattamento dimostrata dal nostro governo che aveva manifestato accoglienza generosa verso gli embrioni provenienti dall’Ucraina, in sostegno alla futura ripopolazione della zona, ma non ha fatto altrettanto con gli embrioni di Gaza. «L’Onu ha pubblicato le foto dei centri di sterilità di Gaza distrutti, con tutti gli embrioni distrutti» e – supponiamo – è una notizia che stupirebbe vedere collocata accanto alle pratiche virtuose per aumentare gli alberi in città.
«Il prodotto più venduto è la femmina che vuole diventare maschio»
E, poi, accanto alle ghiande ci sono le pianticelle in fiore. Nonostante l’attenzione a usare sempre pronomi calibrati sui desideri del paziente, nel film scappa di detto: «Il prodotto più venduto del momento è la femmina che vuole diventare maschio, di 16-17 anni». Una di questi prodotti si siede nello studio di Bini. È ampiamente maggiorenne, ma, per il resto rientra nel profilo prevalente che «transita» verso il maschile. E naviga in acque a rischio tsunami. Nata all’estero e abbandonata dai genitori biologici, è stata adottata in Italia. Quando ha cominciato la transizione da donna a uomo si è incrinata anche la relazione con i genitori adottivi. Abbandonata due volte non si può, riconosce il dottor Bini che si rende disponibile a parlare con la madre. Aggiunge: «Piangi pure, se vuoi». Ci vuole compassione anche per i prodotti di punta. E le lacrime scendono.
Sì, piangi cara ragazza, perché quello che duole non è roba di emorroidi e tonsille. In una delle ultime immagini del film anche la collaboratrice di Bini si commuove guardando l’ecografia della sua gravidanza alla settima settimana. Tradisce qualcosa di diverso dallo scetticismo con cui aveva etichettato chi tratta gli embrioni come esseri umani. Sembrerebbe lo sguardo di una madre. Mi raccomando, si ricordi la lezione: embrione piccolo, felicità piccola.
Aborto e obiezione di coscienza per Maurizio Bini
Ghianda, piccolo, addirittura invisibile. Vale per l’embrione, vale per i vagiti di anime in cerca d’identità. Medicina di confine, leggi ed etica. Inevitabile pensare anche all’aborto, e in effetti dal pubblico appassionato di Bologna nasce una domanda per il dottor Bini che riguarda il «problema» della percentuale ancora altissima di medici obiettori: quando le leggi si fanno più restrittive questo bordo come lo gestiamo?
Nel campo medico «l’etica bisogna portarsela da casa», risponde Bini, «non può essere un hardware esterno come invece stanno cercando di fare la legge e la politica. Noi lavoriamo sull’invisibile: un embrione è grande 100 micron, non potete vederlo se non lo ingrandite 400 volte. Esiste un legislativo fortissimo ed esiste un giudiziario inesistente. Qualsiasi cosa venga stabilita per legge, quello che succederà realmente non dipenderà dalla legge, dipenderà da cosa pensa il singolo operatore, perché nessuno potrà mai controllare che l’embrione sia in quel catetere, che è stato caricato e messo nel posto giusto, e così via. Quindi il singolo operatore, è lui che deve portarsi l’etica da casa. È inutile che facciano leggi così dure e severe come quelle che stanno facendo, che hanno degli aspetti propagandistici evidenti, visto che poi non possono essere controllate».
Oltre una frontiera delirante
Sulla soglia delle possibilità antitetiche, virtuose o terribili, che si aprono di fronte a una scena descritta con queste parole ci prendiamo un tempo narrativo di lunga pausa attonita.
Però, c’è da scomodare qualcosa di più rumoroso dell’intera orchestra della Scala per sottolineare che non siamo su un bordo, ma è già stata ampiamente superata una frontiera delirante lì dove un uomo afferma di fare altri esseri umani per mestiere e reclama il posto di chi decide cosa è giusto. È un trono su cui altri si sono già seduti nella storia dell’umanità, e nient’affatto inedite sono le stragi commesse con la delicatezza micidiale di mani foderate di guanti.
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