
Se c’era Renzi, Stephanie Forrester non moriva. Ritratto sentimentale del sindaco di Firenze
Fino a poche settimane fa le mail del circolo Pd frequentato in due domeniche d’inverno arrivavano nella casella di posta come le magliette di un ex che spuntano dall’armadio: stilettate, detonatori di ricordi, in qualche caso reliquie di relazioni definitivamente sbiadite. Poi Matteo Renzi è rientrato a dare a questo tempo ignavo e larghintesista un senso di campagna elettorale vaga e indefinita. Insomma non è chiaro se e quando si voterà, ma è chiaro che lui c’è. Se non adesso (parola d’ordine della sua campagna per le primarie), prima o poi. Certo, c’è il non trascurabile dettaglio che per la risoluzione dei dubbi temporali si sta appesi a Berlusconi e prima ancora ai moniti di un presidente della Repubblica che più volte ha ribadito la necessità di stabilità. Eppure per l’elettore neofita delle primarie del 2012, uno che magari non aveva mai partecipato a nessuna primaria e alle elezioni vere non ricorda cosa ha votato (indizio che potrebbe persino essere un transfuga del centrodestra) questi sono giorni strani. Giorni di déjà vu e sussulti. Di quelli che solo gli innamorati delusi possono comprendere.
Cattolico democratico, scout, citatore non banale di don Lorenzo Milani, culturalmente più pronto a schierarsi con Marchionne che con la Cgil, frequentatore di posti ambigui come Amici, Arcore, ristoranti con Briatore. Sindaco di Firenze. Giovane. Con la fissa che i progressisti, quelli tra cui ripete di sentirsi a casa, siano ingessati da un apparato inamovibile e intrinsecamente conservatore. I tanti che giudicavano la sua retorica rottamatrice un filino eccessiva si sono ricreduti durante le primarie, quando la sua idea di partito “smart” è stata travolta dalla ditta di Pier Luigi Bersani tra strette di mano e regole trabocchetto. A garantirgli il successo tra gli uomini di buona volontà è stata l’accusa più infamante, quella di voler attirare i delusi del centrodestra, di voler parlare a tutti. «Matteo nel Pd fa paura. Non vogliono avere in casa gente che non è della tribù», dirà di lui mesi dopo Jovanotti fornendo una sintesi perfetta dell’apparato teorico che ha sostenuto il gioco dell’estate, quel “se c’era Renzi” che ha scandito i mesi dalle politiche ad oggi, tanto che se c’era Renzi, chissà, forse Stephanie Forrester non moriva.
La più bella sconfitta del mondo
La sera della sconfitta contro Bersani Matteo si accalorava dicendo che «la nostra non era una battaglia di testimonianza», sincero e spietato come ogni amante degno di questo nome che non sottrae lo sguardo e dice che è finita, «è stato meglio lasciarsi che non incontrarsi», ma domani è un altro giorno. Matteo quella sera non ha citato né Via col Vento né De André, ma i Modena City Ramblers e Samuele Bersani: «È sempre bellissima la cicatrice che mi ricorderà di essere stato felice». Oggi gli ex folgorati lo guardano, reduce da una battaglia scomposta sul Quirinale, divincolarsi tra i residui della rottamazione, sopportare gli endorsement di chi ieri lo schifava (Franceschini), sostenere la durezza di Rosy Bindi (signorina caparbia nel dire che non lo ha mai amato e mai lo farà), schivare le profferte di Fioroni (che vagheggia intese sui contenuti), annotarsi le sortite dell’autorottamato D’Alema che prevede sfracelli se Matteo si intestardirà a voler guidare il Pd invece di limitarsi a fare il premier, infastidito da Pippo Civati che lamenta l’attenzione esclusiva dei media sul sindaco e assicura: «Anche io faccio i bagni di folla».
Così adesso che tutti lo danno vittorioso nei sondaggi il sospetto è che la sconfitta gloriosa alle primarie fosse la vera vittoria di Matteo, l’unica possibile, quando ha trionfato in Toscana e ottenuto ottimi risultati in terre placide e moderate come le Marche, che mesi dopo sarebbero divenute terra di conquista del Movimento cinque stelle alle politiche. Chi ci aveva creduto lo guarda con lo smarrimento che si riserva a uno che aveva un posto nel cuore e ora tenta di recuperare posizioni senza sapere in che campionato gioca. Ultimamente l’hashtag preferito dei tweet di Matteo è #iocicredo. In amore bisogna crederci in due, in politica in molti di più. Perché tutti gli amori vanno consumati al momento giusto. Altrimenti si consumano.
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La redazione è già in campagna elettorale?