Martinazzoli, il dc che seppellì la Dc (e si pentì amaramente di aver ascoltato Rosy Bindi)

Di Ettore Bonalberti
08 Settembre 2011
Ritratto affettuoso e senza infingimenti del grande politico su cui nel 1992 avevano confidato i tanti "democristiani non pentiti". Galantuomo d'altri tempi, non aveva la tempra del fighter per reggere l'urto di Tangentopoli. Le speranze, gli errori e le delusioni di un cristiano liberale che non seppe arginare una diaspora forse evitabile

È morto Mino Martinazzoli, un amico, un galantuomo di altri tempi, colui che suscitò in molti di noi tante speranze e, alla fine, una cocente delusione. Eravamo riuniti in un drammatico Consiglio nazionale della Dc nel settembre del 1992, segretario politico Arnaldo Forlani, presidente del Consiglio nazionale democristiano Ciriaco De Mita, dopo il risultato peggiore della storia elettorale del partito che, nelle elezioni di quell’anno, aveva toccato il minimo storico (29,65 per cento). In ogni caso, una base su cui sarebbe stato ancora possibile ricostruire e consolidare la presenza dei democratici cristiani nella storia del paese.
In quel Consiglio nazionale, iniziato con oltre quattro ore di ritardo, senza un vero dibattito, dopo un ordine del giorno di Cirino Pomicino che, di fatto, chiedeva il rinvio di ogni decisione, era sotteso il grande scontro interno tra andreottiani e noi sostenitori di Forlani per il rinnovo della presidenza della Repubblica. Uno scontro irrazionale e autodistruttivo che portò, alla fine, all’elezione dell’infido Oscar Luigi Scalfaro, l’uomo che concorse in maniera determinante agli sviluppi successivi della storia politica italiana.

Fu in quell’occasione che, alcuni tra di noi, spinsero affinchè Forlani si dimettesse dalla segreteria politica, puntando su Mino Martinazzoli, il volto buono e, anche per noi “preambolisti” della prima ora, sostenibile al quale affidare l’indispensabile processo di rinnovamento di un partito che viveva la quotidiana chiamata in causa da parte di una magistratura scatenata a senso unico contro il pentapartito.
La sua antica militanza a fianco di Franco Salvi, capo della corrente morotea di Brescia e della Lombardia, quello della “banda dei quattro” di Benigno Zaccagnini (Belci Bodrato, Pisanu e Salvi) che, grazie alla sua posizione moderata tra i nuovi amici basisti demitiani, ci sembrava la naturale prosecuzione dell’eredità zaccagniniana a noi cara.
Peccato che, appena eletto alla segreteria, subì il fascino della pasionaria di Sinalunga, l’onorevole Rosy Bindi che, spedita per l’incapacità dei capi corrente veneti (“i due Carlini”: Carlo Bernini per i dorotei e Carlo Fracanzani per l’area demitiana) a concordare un equilibrio, fu chiamata a guidare, senza titolo, la segreteria regionale di uno delle più consistenti realtà elettorali regionali della Dc. Bindi tanto si agitò che lo convinse dell’opportunità di cambiare nome al partito. Fu l’inizio di una nuova storia.
A quella decisione si era opposto, senza successo, il lungimirante Luigi Granelli e pochi altri. Quello fu il preludio alla svolta di un favorevole accordo post elettorale con il Pci, divenuto con la Bolognina, Pds, dopo le elezioni del 1994. Fu il triste preludio a una tragedia incombente per tutti noi, tranne che per la Rosy, oggi presidente del partito che raccoglie l’eredità più consistente dei vecchi comunisti italiani.

Quella decisione portò alla scissione di Clemente Mastella, Pier Ferdinando Casinie Sandro Fontana con gli amici del Ccd, alla Waterloo del 1994, con il Ppi ridotto all’11,1 per cento dei voti e al drammatico Consiglio nazionale post elettorale in cui Mino si congedò con un fax, epitaffio di una tragica sconfitta senza appello.
E così, anche noi, che pure avevamo creduto e ci eravamo battuti in Consiglio nazionale per la sua elezione, passammo alla frustrazione e alla rabbia, nella consapevolezza che ci eravamo suicidati politicamente e, quel che è più grave, senza la volontà di combattere.
Seguì la terribile diaspora democristiana che si trascina tuttora, specie dopo la sentenza della Corte di Cassazione del dicembre 2010 secondo cui la Dc, seppur politicamente defunta, non è mai stata giuridicamente e legittimamente chiusa. Un capitolo di cui ci siamo impegnati a scrivere correttamente e, secondo le norme, la parola fine.

Con Martinazzoli, persa la battaglia con Roberto Formigoni alle regionali del 2000, con un risultato clamoroso nettamente a favore del governatore alla sua prima elezione, più volte, con lui nella sua nuova funzione di consigliere regionale lombardo, ebbi occasione di ripercorrere quei passaggi essenziali della storia politica della Dc e dell’Italia.
Alla fine anche Martinazzoli, espressione di un cattolicesimo liberale, di chiara ispirazione rosminiana, uomo dall’indiscussa tempra morale, rivelatosi poco adatto a quel ruolo di fighter che la vicenda politica di Tangentopoli avrebbe dovuto fargli assumere, finì con l’osservare con spirito critico l’infimo livello cui era scaduta la politica italiana nella lunga transizione della seconda Repubblica e riconobbe l’errore di aver chiuso l’esperienza della Dc.
Resta in tutti noi il ricordo di un amico. Pur negli errori politici compiuti, lo riconosciamo quale parte importante della storia democratico cristiana, un esempio di politico di profonda ispirazione cristiana e che ci lasciati, dopo una lunga sofferenza, come uno degli ultimi “Dc non pentiti”.

Ettore Bonalberti è coordinatore per il Nord Italia di Fedelif (Federazione dei Liberi e Forti) verso il Ppe

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