Mario e i signori delle mosche

Di Caterina Giojelli
26 Novembre 2021
Se quello del 43enne marchigiano sarà «il primo suicidio assistito in Italia», allora il primo suicidio assistito in Italia sarà quello di un disabile, non di un malato terminale. Con tanti saluti alla retorica sull'eutanasia per le vite agli sgoccioli
Filomena Gallo, Mina Welby e Marco Cappato in occasione del deposito delle firme per il referendum sull'eutanasia legale presso la Corte di Cassazione, lo scorso 8 ottobre (foto Ansa)

Mario ha un grande problema, un problema che non si può risolvere. È un tetraplegico, un disabile grave. Il suo problema non può essere risolto da scienza o medicina, non può risolverlo sua madre né qualcuno che gli vuole bene, non può nemmeno risolverlo da sé. Non perché non dispone del suo corpo, ma perché il suo problema è irrisolvibile.

L’unica soluzione è fare fuori Mario

Se Mario è il suo problema, allora l’unica soluzione è fare fuori Mario. Se stare con Mario significa risolvere il suo problema, allora l’unica soluzione è fare come dicono i radicali, accompagnarlo all’uscita. È la soluzione della tanto invocata legge sull’eutanasia, la soluzione a cui inneggiano i giornali.

Se Mario sarà «il primo suicidio assistito in Italia», come tifano i signori delle mosche dalle prime pagine, dai social e dalle tv parlando del 43enne marchigiano, allora il primo suicidio assistito in Italia sarà quello di un disabile. Non di un malato terminale. E con Mario morirà tutta la retorica su eutanasia o suicidio assistito, dolce morte come panacea all’agonia di una vita agli sgoccioli. Avremo condotto con fazzoletti e caroselli una battaglia per uccidere i disabili. Avremo una legge per uccidere i disabili.

La soluzione al suo essere disabile? La morte

Finché vive, dovrebbe tormentarci l’idea di perdere Mario. E soprattutto il rimpiazzo del tormento con la gioia spietata di perdere Mario. Si vincono battaglie sacrificando la vita ma per la vita di chi amiamo, non per la loro morte. Mario oggi dice al Corriere «hanno capito che non raccontavo bugie. Sono una persona al limite della sopportazione», ma nessuno ha mai messo in dubbio la rabbia e il dolore di Mario, il primo cittadino italiano ad avere denunciato una amministrazione perché non voleva farlo fuori. L’unica “soluzione” che poteva immaginare al suo irrisolvibile problema ha infatti incontrato solo dei “no” fino all’arrivo di Cappato e soci. Ed ecco, finalmente, il fioccare dei primi “sì” ai suoi desiderata. Dei “sì” fatti propri da giornalisti e influencer, perché sostenere la soluzione di Mario era diventato sostenere Mario, volere bene al suo problema, al suo essere disabile. Poco importa se la soluzione sottendeva che Mario, che dipende in tutto e per tutto da un altro, fosse solo la sua disabilità, il suo problema, se fosse Mario a dover essere eliminato.

Nessuno può giudicare la sofferenza e il non darsi pace di Mario, sulla bilancia gli asettici “no” di un tribunale, una Regione, una Asur non avranno mai il peso degli affettuosi “sì” di familiari, associazioni, giornalisti, ministri. Chi era Mario prima di tutti questi sì? Un uomo costretto a letto con una sofferenza non vista, non capita, mentre oggi è un uomo che prova «tanto orgoglio» perché «hanno riconosciuto che le mie sofferenze fisica e psicologica sono intollerabili», perché il suo progetto di morire viene applaudito in tutta Italia.

L’alternativa è farsi in quattro e dire “voglio stare con te”

È più facile dire sì a Mario, se la sua domanda non è una domanda di accompagnamento alla vita ma alla morte. È più facile se la vita è un progetto e se il progetto di quella vita non può più essere portato a termine, risolto. Perché l’alternativa non è un problem solver. Non è nemmeno il secco no della burocrazia. L’alternativa è una società umana, politica, giornali, amministrazioni che invece di promettere “farò di tutto perché tu muoia” (à la ministro Speranza sulla Stampa) ti promette “farò di tutto per accompagnare la tua vita”. Una società che invece di urlare e twittare “viva Mario che muore” si fa in quattro, otto, decine e centinaia di persone per dire a Mario “resta qui, con noi”, “vogliamo stare con te”. Chi vorrebbe stare con dei signori che gridano vittoria se ti uccidi? Che invece di “ti aiuto” dicono “ti ammazzo”?

Secondo la stampa, la politica, le croniste commosse, gli scrittori compassati, “umano” è guardare a Mario come loro, cioè guardare a una persona come una cosa, un arnese che si rompe e non si aggiusta, e all’umanità come a un coacervo di “aventi diritto” a vivere e morire, cioè ad avere dallo Stato cure o “spine staccate”, ciascuno secondo i propri desiderata. “Disumano” sarebbe invece tirare in ballo due anni di pandemia per sostenere che no, nessuna società o Stato consegna pari valore a vivere o morire. O chiedersi quale destino venga apparecchiato per i più fragili guardando a che punto si è arrivati in Olanda, Belgio e Canada, dove ammazzare è risparmiare e i disabili, insieme ad anziani e depressi, vengono uccisi da anni, ora che nessun paletto della Consulta ha tenuto, ora che si è dimostrata illimitata l’estensione del concetto di sostegno vitale e sofferenza, ora che la proposta di cure palliative viene guardata come l’omeopatia per combattere il Covid.

Non giudicare la sofferenza di Mario, ma la società

Nessuno può giudicare la sofferenza di Mario, ma una società che ha perso il senso dell’umano e grida alla trappola, allo scandalo, perché qualcuno non si prende la briga di decidere come ammazzare un tetraplegico, sì. Non lo dobbiamo solo a Mario ma ai migliaia di disabili gravi che non sono mantenuti in vita artificialmente né sono sottoposti ad accanimento terapeutico, alle famiglie, alle associazioni, fondazioni, persone che non possono risolvere una lesione al midollo spinale o peggio, ma non riducono a ciò che non possono fare il senso dell’amare, vivere, tenere forte questi disabili. Possibile che amare la loro vita conti come o meno di amarne la morte? Che vivere conti come o meno morire? Come è possibile abituare l’uomo a ciò che non è umano, non la morte ma la disumana vergogna di chi va latrando di vittoria, giustizia, conquista nelle piazze e sui giornali issando il vessillo funebre sul letto di un tetraplegico (e indicandone già un altro, quello di Antonio, un altro “caso Mario” delle Marche).

Uno scrittore, Stefano Massini, su Repubblica ha indirizzato una lettera a Eluana Englaro mischiando data del suo 51esimo compleanno e decisione del comitato etico su Mario, Samantha D’Incà, ddl Zan e schifo per chi non scende in piazza per le libertà individuali, concludendo che «ognuno d’altra parte si qualifica per le battaglie che sceglie». Ma anche per la puzza di morte che emette quando scende in battaglia con i sani per seppellire i disabili.

Articoli correlati

0 commenti

Non ci sono ancora commenti.