
Mario Mauro: la guerra in Afghanistan, «anche se a diecimila chilometri di distanza», ci riguarda eccome
In Afghanistan c’era già stato quando era vicepresidente del Parlamento europeo, e ci è tornato il 4 maggio scorso poco dopo aver giurato da ministro della Difesa: ha visitato le truppe italiane di stanza a Herat, Farah e Shindand e ha incontrato il presidente Karzai e autorità della provincia di Herat. Da anni Mario Mauro si tiene aggiornato sul dossier Afghanistan. Alla commissione Esteri del Parlamento europeo ha ribadito che l’Italia si impegnerà nell’addestramento delle forze di sicurezza afghane anche dopo il termine della missione Isaf, in proporzione agli sforzi degli altri paesi che hanno preso parte alla missione che si conclude alla fine del 2014. Lo spunto dell’intervista che ci ha rilasciato è stato, ovviamente, l’attacco ai nostri militari dell’8 giugno e gli interrogativi che ha sollevato ancora una volta sulla nostra presenza nel tormentato paese asiatico.
Signor ministro, a ottobre saranno 10 anni da quando il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha esteso il mandato dell’Isaf a tutto il territorio afghano. Perché dopo tutto questo tempo e la presenza di quasi 100 mila militari stranieri di 38 nazioni il paese non è ancora stabilizzato?
Il più grosso problema dell’Afghanistan è che la maggior parte di coloro che costituivano il regime dei talebani sono di fatto riparati oltre confine in Pakistan, sfruttando anche l’ambiente rappresentato dalle tribù che vivono a cavallo di quel confine. I rifornimenti che ricevono in territorio pakistano consentono ai talebani di ripresentarsi a primavera con atti di terrorismo in territorio afghano o anche vere e proprie offensive contro Kabul. Occorre tenere presente che i talebani si armano grazie a sostegni di natura internazionale, ma soprattutto grazie ai proventi del traffico di papavero da oppio. Altra cosa da tenere presente è che i talebani non sono un esercito schierato sul campo con una catena di comando gerarchica, ma un mosaico di clan all’interno dei quali la componente ideologizzata, cioè fondamentalista di matrice islamista legata all’internazionale del terrore di al Qaeda, è numericamente ridotta. Ciò significa che la stabilizzazione del territorio afghano è fatta di operazioni, condotte da esercito e polizia afghani, simili al contrasto che in Italia attua lo Stato nella lotta alla mafia e alla ‘ndrangheta, e di un’operatività di contrasto più diretto condotta da Enduring Freedom, cioè dagli americani, col supporto anche delle forze speciali afghane. Premesso questo, osservo che da noi è diventato abituale dipingere l’Afghanistan come “una guerra che non si può vincere”. Dimenticando che i nostri uomini sono in Bosnia da vent’anni e da quattordici in Kosovo. La stabilizzazione richiede tempi lunghi: anche in un contesto, come quello balcanico, in cui i concetti di democrazia, libertà e pace sono affini al modello culturale europeo, l’opera di pacificazione è difficilissima. Il successo della missione in Afghanistan richiede lo sviluppo di una parte non direttamente militare, che rappresenterà la continuazione ideale di Isaf a partire dal gennaio 2015 e si chiamerà Resolute Support. Con molti meno uomini, ci occuperemo di formazione delle forze di sicurezza afghane e di sviluppo.
Ma attualmente da cosa dipendono i problemi della zona di Herat, che è sotto la responsabilità italiana?
Sull’episodio della settimana scorsa, che ha visto il sacrificio del capitano La Rosa, è in corso un’inchiesta italiana e afghana. La rivendicazione fatta dai talebani è tutta da verificare, compresa la parte che sembra tanto affascinare i media occidentali relativa al ragazzo che avrebbe lanciato la bomba. Di ciò non abbiamo alcun riscontro, anzi i racconti dei protagonisti vanno in senso contrario. La dichiarazione dei talebani la considererei un’iniziativa di propaganda. Sul piano generale, i problemi della provincia di Herat, rappresentati principalmente dalla disseminazione degli Ied, gli ordigni esplosivi, sono legati principalmente alle attività di clan locali che gestiscono traffici illegali. Loro vedono nelle forze della coalizione un elemento che contrasta i loro interessi con la presenza sul territorio.
Ogni volta che il contingente italiano in Afghanistan subisce un attacco mortale, qualche parlamentare e qualche leader di partito chiede il ritiro immediato delle truppe italiane. Che ne pensa?
Il parlamento è sovrano, è espressione della volontà della nazione e in qualsiasi momento può prendere decisioni in materia o rinegoziare le condizioni della presenza italiana nelle missioni internazionali. Premesso ciò, credo che bisogna andare al fondo di ciò che significa la nostra presenza in Afghanistan, dove siamo arrivati con un forte mandato internazionale, probabilmente il più forte e motivato da quando esistono le Nazioni Unite, e all’interno di una coalizione che da sempre è la coalizione e l’alleanza politica che veglia alla nostra sicurezza: la Nato. Bisogna ricordare e riconoscere che quando l’Afghanistan qualche anno fa è diventato uno stato fallito ha determinato le condizioni, in un contesto ormai globalizzato, per la destabilizzazione di tutto il mondo. La realtà è che il conflitto afghano, benché a 10 mila chilometri di distanza, interessa la nostra vita quotidiana. Questo deve ricordarci che né la pace, né la libertà sono gratis. Purtroppo hanno un prezzo alto e gli italiani lo stano pagando.
53 caduti italiani dal 2004 ad oggi, decine di feriti. È un bilancio che rattrista profondamente.
E che ci deve rendere orgogliosi di loro, perché li abbiamo visti spendersi al servizio della pace, e non per far la guerra. Attraverso le testimonianze di centinaia dei nostri soldati sappiamo che sono orgogliosi di ciò che hanno fatto in Afghanistan.
Nel 2014 finirà l’attuale modalità di presenza. Considerato quello che continua a succedere, si fa fatica a parlare di un successo.
Parla così chi non è stato in Afghanistan e non ha visto cosa sta avvenendo nell’ambito dell’assistenza sanitaria, delle infrastrutture, del miglioramento delle condizioni di vita delle donne, delle scuole. Tutto questo è il nuovo Afghanistan. L’occhio dei cronisti può essere maggiormente concentrato sulle operazioni di natura militare e di polizia. Io li invito ad andare a vedere come, fra le altre cose, è migliorato il livello delle truppe afghane. Credo sia veramente molto importante potere acquisire informazioni sul campo e documentare attraverso questo il percorso che il paese sta compiendo. Fermo restando che permangono gravissimi problemi. L’utilizzo del terrorismo come strumento di pressione da parte dei vari gruppi di potere per aumentare la propria influenza nelle varie aree del paese e per condurre un braccio di ferro col governo di Kabul è purtroppo un fattore che contraddistingue il modo di intendere la politica in Afghanistan. Penso ai signori della guerra che imperversano da decenni e che sulla base della forza economica e militare dei propri clan familiari interpretano figure a cavallo fra il capitano di ventura e il leader politico istituzionale.
Ha accennato all’addestramento dell’esercito e della polizia afghani: quali risultati abbiamo raggiunto, quali sono le criticità?
Ci sono 300 mila uomini in campo da parte afghana, fra poliziotti e membri dell’esercito afghano. All’interno di questa grande massa può accadere che si infiltrino individui che non hanno a cuore la pace e il progresso per il proprio paese. Il fenomeno “green on blue”, cioè di soldati che vestono la divisa afghana e poi attaccano truppe Nato oppure si propongono come terroristi suicidi, è un aspetto che fotografa le contraddizioni della società afghana. Ma ciò non rende meno serio e consistente quello che si sta facendo. Io penso che alla fine saranno gli afghani che riusciranno a stabilizzare il paese. La presenza delle truppe Nato è un supporto che ha creato le condizioni per questa operazione, ma certamente sono gli afghani che affezionandosi all’idea di una stabilità che garantisca pace e progresso possono determinare le condizioni per il raggiungimento effettivo di questi obiettivi.
Nel momento in cui finirà la missione Isaf alla fine del 2014, l’obiettivo della transizione della gestione della sicurezza dalle truppe internazionali a quelle afghane sarà realizzato sulla carta o nella realtà?
È già in corso, sono mesi che le nostre truppe si limitano, come nel caso dell’operazione a Farah conclusasi tragicamente, al semplice supporto delle truppe afghane, cioè a mantenersi pronte al soccorso nel caso che quelle truppe fossero in difficoltà. E l’episodio che ha interessato noi è avvenuto al termine dell’operazione, in un contesto più di terrorismo urbano. In questo momento sono già le truppe afghane che sopportano il grosso della contesa con le unità dei talebani e con l’infinita congerie di piccoli clan che affollano un’area dove si muovono interessi rilevantissimi, quelli legati al traffico della droga.
Sulla sostenibilità del sistema afghano dopo la fine di Isaf ci sono posizioni diverse fra i vari think tank. Per il Brookings Institute il successo è ancora possibile alla luce dei progressi registrati, invece per l’International Crisis Group il passaggio di consegne sarà un fallimento a causa soprattutto della corruzione e degli interessi dei clan. Come la vede?
Hanno buone ragioni entrambi. Penso che chi come me ha frequentato l’Afghanistan in passato sa che esistono degli afghani che vogliono cambiare per il meglio il proprio paese. Chi fa valutazioni su basi statistiche stimando quanto aumenta o diminuisce la corruzione, quanto aumenta o diminuisce la presenza di ordigni o la recrudescenza di offensive armate nei confronti delle truppe Nato, fa valutazioni vere e importanti, che però non tengono conto di tutti i fattori. Lo ripeto: la speranza dell’Afghanistan sono soprattutto gli afghani, sarà importante constatare se c’è una generazione che ha preso a cuore le sorti del proprio paese. Alcune di queste persone io le ho incontrate.
Parliamo delle trattative con la guerriglia: non è stato un errore annunciare il ritiro entro il 2014? I talebani non hanno più motivo di negoziare, anzi aumenteranno gli attacchi per prendersi il merito del ritiro delle truppe straniere.
Non vedo il problema in questi termini. Intanto rimane sul campo la missione Enduring Freedom, sulla quale gli Usa non si sono sbilanciati. In secondo luogo una recrudescenza di atti terroristici da parte talebana in coincidenza della conclusione di Isaf sarebbe controproducente per gli stessi talebani, perché potrebbe fare irrigidire molti comandi. Io penso che sia l’amministrazione Karzai, sia coloro che a livello internazionale hanno a cuore di trovare una soluzione di pace per l’Afghanistan siano fortemente disponibili a raggiungere intese di natura politica con i gruppi armati che si muovono nel contesto afghano. Ma occorre distinguere quelli che vogliono raggiungere una posizione negoziale forte attraverso le armi, da quelli che sono intenzionati, magari in raccordo con indefiniti interlocutori pakistani, a mantenere destabilizzato l’Afghanistan, da quelli infine che puntano al califfato.
Il ministro è soddisfatto dell’azione del Provincial Reconstruction Team (Prt)?
Onestamente il loro mi è sembrato un lavoro splendido. Maria Bashiz, procuratore generale di Herat, mi ha confessato che senza il tipo di attività realizzato nella loro provincia dal Prt a guida italiana non avrebbe avuto senso la parola ricostruzione nella loro provincia.
Per finire le pongo una domanda che esula dalla questione afghana. Sul nostro sito tempi.it abbiamo intervistato il patriarca latino di Gerusalemme, monsignor Fouad Twal, il quale coraggiosamente ha affermato: «In Siria, dovendo scegliere fra due mali, meglio una dittatura che una guerra con 100 mila morti». Cosa ne pensa?
Non spetta a me commentare le parole di un’autorità religiosa. Quello che mi preme dire è che la guerra in Siria mi ricorda la guerra civile di Spagna che ha preceduto la Seconda guerra mondiale. Vale a dire un conflitto in cui gli interessi delle potenze regionali sono evidenti e alimentano la furia degli scontri: un contesto in cui operano l’Iran, l’Arabia Saudita, il Qatar e sono coinvolte anche la Giordania e la Turchia. Col problema della sicurezza di Israele sullo sfondo e delle ricadute sul Libano. C’è il rischio di avere presto un’area destabilizzata che va dalla costa libanese del Mediterraneo all’Iraq: uno scenario di guerra globalizzata. Il conflitto siriano è drammaticamente pericoloso per il resto del mondo, e l’unica alternativa reale che può mettere a disposizione la comunità internazionale è di prodigarsi per accelerare i tempi di Ginevra II in vista di una soluzione politica.
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Stimo il ministro Mauro da sempre e leggo con estrema attenzione ogni sua dichiarazione.Sono però perplesso, come tanti in Occidente, sull’intervento “umanitario”in afghanistan.Gli interventi occidentali negli ultimi tempi (Iraq,Libia, Kossovo, l’appoggio alle milizie islamiste anti Assad che includono al qaeda ,ecc.)sono state delle inutili sciagure per i Paesi aggrediti.con tantissimi morti e feriti da ambo le parti.Le condizioni di vita di tali popolazioni sono nettamente peggiorate, e la situazione internazionale si è aggravata, praticamente il fondamentalismo islamico che a parole si voleva combattere è diventato molto più forte e pericoloso.Una selezione più rigorosa nell’accogliere “profughi “islamici, per impedire infiltrazioni viene, invece bollata come razzismo e scartata a priori.
Spero comunque di sbagliarmi e che l’intervento in Afghanistan sia a lungo termine utile e proficuo per le popolazioni locali, e per la comunità internazionale, se non altro per i numerosi soldati occidentali e locali e i tanti civili afghani morti.
http://www.lanuovabq.it/it/articoli-afghanistan-bugie-sul-ritiro-6656.htm
Il premier Enrico Letta ha sostenuto che “non si pone il problema dell’uscita dall’Afghanistan che è stato già fissato nel 2014”. In realtà Roma ha già approvato (ma non in Parlamento) il piano dell’Alleanza Atlantica che si svilupperà per almeno un triennio dopo il 2014 con la missione addestrativa e di consulenza “Resolute Support” il cui concetto operativo è stato definito il 5 giugno a Bruxelles. In questa missione, che non prevede compiti di combattimento se non per la difesa delle truppe delle basi, gli italiani avranno un ruolo di grande rilievo sempre nello stesso settore occidentale. Mentre britannici e francesi si defileranno lasciando in Afghanistan pochi consiglieri e istruttori, Germania e Italia invece manterranno il comando di due dei cinque settori ai quali fanno capo oggi i Comandi Regionali della forza Nato. Un impegno non irrilevante che ha ottenuto un pubblico elogio da parte del segretario alla Difesa statunitense, Chuck Hagel.Questo significa che oltre ai consiglieri militari manterremo a Herat un comandante di contingente (un colonnello o più facilmente un generale) che si interfaccerà con le autorità militari e civili afghane dell’Ovest e con il vertice della missione a Kabul. Il numero di militari italiani assegnati alla missione sarà certo inferiore agli attuali 3.200 effettivi e anche ai 1.800 che saranno presumibilmente presenti a Herat tra un anno. Non sarà però limitato a poche decine di istruttori e consiglieri poiché a questi ultimi occorrerà assicurare un ampio supporto logistico, una forza da combattimento per difendere le basi di Herat e Shindand e intervenire in quel settore ovunque ve ne sia bisogno disponendo quindi di elicotteri e forse anche droni. Insomma, dopo il 2014 i militari italiani non solo resteranno in Afghanistan ma vi schiereranno presumibilmente non meno di 600/800 militari.
il cattolicissimo ministro mauro vorrebbe l’evaporazione dell’italia nell’europa francotedesca, come più volte da lui auspicato nelle comparsate televisive.