Mamma, ho perso l’ospedale

Di Emanuele Boffi
24 Ottobre 2002
Domodossola, un gruppo di mamme occupa l’edificio del Comune per protestare contro la chiusura dell’ospedale. La fifa dei politici, i conti che non tornano, inquieta Italia

Test: quale di queste affermazioni vi sembra più lapalissiana?
1) È meglio un ospedale di serie A che uno di serie B.
2) Prima di chiudere un ospedale di serie B bisognerebbe aprire nella stessa zona uno di serie A.
3) I politici dovrebbero sempre essere pronti a rispondere delle proprie azioni davanti al popolo che li ha eletti.

Risposta (ovvia) al test
Tutte e tre? Bene, vi raccontiamo un piccolo (ma significativo) caso in cui nessuna di queste tre ovvietà è stata ripettata. Un caso minimo, provinciale, una “bega di paese” accaduta in quel di Domodossola, cittadina piemontese in provincia di Verbania. Ma una situazione emblematica che dall’ambito sanitario sconfina in quello politico e sociale. Ognuno, in questa storia, ci veda un po’ quel che vuole: lo scollamento fra la società e la politica, la solitudine recriminante dell’uomo della strada, l’opportunismo di certi medici preoccupati più della carriera che del giuramento d’Ippocrate. Niente di scandaloso, per carità. Certamente, però, la morale è una: ci hanno perso tutti. Ma, ecco cosa non è ovvio: c’è, in questa storia, un’opportunità per cambiare le carte in tavola.

La mamma è sempre la mamma
Domodossola, metà agosto. In città, fra i pochi rimasti, inizia a spargersi la voce che l’ospedale verrà chiuso. Paese piccolo, la gente mormora. Ma qui, oltre a mormorare, si organizza un piccolo gruppo di giovani future mamme, allarmate dalla notizia della chiusura anche dei reparti di ginecologia e pediatria, che occupa il comune. Armate di passeggini, biberon e pance da settimo e ottavo mese, entrano nella sala consiliare e, come fossero leonkavallini, vi si stabilizzano. Notte e giorno. Il sindaco, in ferie, fa in tempo ad appoggiare le valigie che, raggiunto da una telefonata, torna precipitosamente in paese. Il fatto finisce presto sulle prime pagine dei giornali locali, poi nazionali e infine in televisione. Il numero delle mamme cresce, i parenti si aggregano, in breve sono molti a simpatizzare con le mamme che costituiscono un comitato. Secondo le cronache il 27 agosto erano in 8mila in piazza per protestare. «Non potete chiudere questi due reparti – dicono le mamme – dove dovremmo partorire? Se capitasse un’emergenza? Ma che state combinando?». Fino all’immancabile «a perderci sono sempre i poveretti». Inutile dire che le agguerrite mamme attirano le simpatie dei più, l’attenzione dei media nazionali fa salire l’adrenalina delle mamme e la fifa dei politici della zona, d’improvviso sotto i riflettori delle telecamere tivù. Il caso da paesano diventa nazionale.

L’erba dell’ospedale del vicino…
Il bubbone è scoppiato a Ferragosto ma la storia ha i suoi precedenti. La provincia di cui stiamo parlando è quella del Verbano Cusio Ossola. Perché un nome così articolato? Perché, ed è un elemento non secondario, qui ogni paese è geloso di quel che ha e invidioso di quel che ha il paese confinante. Quando fu istituita la nuova provincia ci volle più tempo per sceglierne il nome che per delimitarne i confini. Fu così che per far contenti tutti fu scelta la tripla denominazione. Quando fu il momento di assegnare la targa scoppiò il secondo putiferio: VD, VC o VB? E il fatto che alla fine sia stata scelta la sigla VB è andato giù di traverso agli ossolani cui non ha fatto piacere essere scavalcati da “quelli di Verbania”. E così i nuovi cambiamenti dell’organizzazione sanitaria sono stati vissuti come l’ennesimo caso di scontro fra campanili. Con la creazione della nuova provincia si è proceduto anche nel tentativo di razionalizzare la gestione sanitaria della zona. Sul territorio sono presenti tre piccoli presidi ospedalieri: uno a Omegna, uno a Verbania, uno a Domodossola. Tre piccoli ospedali, molto vecchi, poco efficienti e, soprattutto, molto costosi. Il Verbano Cusio Ossola ha un bacino d’utenza molto esiguo (160mila abitanti) e, di conseguenza, un bilancio sanitario altrettanto povero. Oltre a ciò, vive ormai da anni un’emorragia dei suoi medici migliori (che vanno a lavorare nelle grandi città) ma anche dei suoi utenti perché 6 persone su 10 a Verbania e 3 su 10 a Domodossola preferiscono curarsi fuori provincia o fuori regione. Era dunque inevitabile un ripensamento di questa situazione che, oltre a non offrire risultati apprezzabili, risultava fonte di sprechi. Qualche numero: oggi i tre presidi ospedalieri contano complessivamente 935 posti letto. In realtà ne sarebbero più che sufficienti 560. La soglia minima indicata dal Ministero della Salute per tenere aperto un reparto di neonatologia è di 500 parti all’anno. Oggi a Verbania nascono poco più 500 bambini in un anno, a Domodossola meno di 500. Secondo il Ministero, ma anche secondo tutta la letteratura scientifica di questo settore, un Pronto Soccorso per garantire una certa efficienza e sostenibilità economica deve raggiungere la soglia ottimale di 30mila passaggi all’anno. Tutti i Ps di Verbania, Domodossola e Omegna sono ben al di sotto di questa soglia.

Debacle politica
Che fare? Semplice, chiudere. O meglio, razionalizzare. Cioè chiudere qui per riaprire là. Il primo presidio a essere “razionalizzato” è stato l’ospedale “Madonna del Popolo” di Omegna. Si è deciso che l’ospedale (anche grazie alla vendita del 49% a una compagnia privata francese) sia trasformato in un centro di specialità ortopedica; la mossa non è però bastata per far quadrare i conti ed erano alcuni anni che si discuteva sull’opportunità di chiudere il presidio ospedaliero “San Biagio” di Domodossola e di ridimensionare il “Castelli” di Verbania. Tira e molla, “chiudiamo sì, chiudiamo no”, alla fine la Regione Piemonte ha presentato un progetto, controfirmato dall’assemblea degli 85 sindaci della Asl del Verbano Cusio Ossola prima dell’estate, per l’apertura di un nuovo ospedale, ultramoderno e efficiente a Piedimulera, località baricentrica per tutto il bacino dell’Ossola. Nel progetto si faceva esplicitamente riferimento al fatto che il nuovo presidio sarebbe stato aperto dopo, e solo dopo, una razionalizzazione dei servizi. Questo avrebbe permesso: un centro di eccellenza da dove i medici non sarebbero più scappati, un ospedale attrezzato e in grado di rispondere ai bisogni degli utenti, la fine degli sprechi. Costo preventivato: 103 milioni di euro; di questi, 21 sarebbero entrati grazie all’alienazione del San Biagio. Problema risolto? Quasi, perché la soluzione, ottimale sulla carta, è rimasta nei cervelli e nei discorsi dei politici e dei tecnici ed è stata spiegata, poco o male, alla cittadinanza. Si aggiunga che a Domodossola ci sono state le elezioni comunali (chi aveva il vantaggio di raccontare la vicenda?) e si capisce perché la “marachella” è capitata ad agosto. Quando è scoppiato il bubbone il fatto più evidente è stato che nessuno è stato in grado di mostrare che la soluzione prospettata fosse la più conveniente. Anziché sedersi ad un tavolo, discutere, spiegare, mostrare qualche numero e qualche dato comprensibile anche alla casalinga di Domodossola, qui i politici (Forza Italia) sono stati travolti dalle recriminazioni popolari. E la sinistra, che da sempre cavalcava l’assurda idea di mantenere i tre presidi, è stata superata, mediaticamente, dal Comitato delle Mamme. Ci ha dovuto pensare la Compagnia delle Opere e l’associazione di professionisti Medicina&Persona a organizzare un incontro a Domodossola per mettere le carte in tavola. Sul palco i responsabili politici della zona e Felice Achilli, presidente di Medicina &Persona; in sala, la cittadinanza.

Ci hanno perso tutti
Venerdì 4 ottobre, ore 21,00, Teatro comunale Galletti, Domodossola. Diciamo la verità: l’assemblea è stato un mezzo fallimento. Ognuno era più preoccupato di difendere il suo punto di vista piuttosto che di ascoltare e capire. La gente urlava «andate a casa», «non potete chiuderci l’ospedale», «non vogliamo l’ospedale di serie A, vogliamo tenerci quello di serie B» e l’immancabile «a perderci sono sempre i poverettti». I politici, sul palco, che giocavano a “scarica barile” dicendo «ma io l’avevo detto», «ci fossi stato io non sarebbe successo», fino all’immancabile «noi siamo dalla parte dei poveretti». E la frase che alla fine ha messo (purtroppo) tutti d’accordo è stata «Cari concittadini, qui non si tocca più niente. L’ospedale vecchio non verrà smantellato finché non si farà quello nuovo». Così, se da un lato è stata la prima volta che, finalmente, responsabili cittadini e provinciali hanno dovuto rendere conto a quei cittadini che li hanno eletti ma che non hanno mai conosciuto, dall’altro è stata un’occasione persa. Non valeva forse la pena di far capire che non è un dramma se per partorire occorre fare dieci minuti in più in automobile? Non valeva forse la pena, casomai, di chiedere un potenziamento del servizio di autoambulanze per i casi d’emergenza? Non valeva forse la pena spiegare che gli sprechi dei tre piccoli ospedali li paga pur sempre il contribuente? E che il vero scandalo non è la costruzione dell’ospedale nuovo ma il fatto che andava costruito dieci anni fa? Ma, come diceva don Abbondio, «il coraggio uno non se lo dà da sé». E gli amministratori locali hanno così preferito bloccare quello stesso progetto che avevano preparato con tanta cura e che però non sono stati in grado di spiegare. Per questo, aggiungiamo noi, ci hanno perso tutti.

“Dottore, come dobbiamo fare?”
Ma non tutto è perduto. Terminata l’infuocata assemblea e fuggiti i politici con la coda fra le gambe, la cittadinanza si è riversata nei bar della piazza a commentare. A un tavolo, il Comitato delle Mamme, senz’altro le più coinvolte nella vicenda. Felice Achilli si avvicina, si siede al tavolo, inizia a chiacchierare e, a tratti, si ricomincia a discutere animatamente. Si parla un po’ di tutto, si procede più per botta e risposta che con un filo logico ma, sta di fatto, alla fine la gente del posto inizia a chiedere: «dottore, come dobbiamo fare?». Achilli non ha soluzioni in tasca, fa il cardiologo a Monza e non a Domodossola, non conosce approfonditamente la realtà locale, non si è seduto al loro tavolo in qualità di guru della sanità. Ha semplicemente compreso che non basta studiare le soluzioni ottimali a tavolino, bisogna avere la pazienza di spiegarle e il coraggio di sostenerle. Che sia la strada giusta? Ci pensino i responsabili del Polo della zona

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