
Ma non chiamateci eroi
Le ciocche di capelli ossigenate, ai piedi un paio di Dr. Martens di cui consuma le suole correndo da un villaggio all’altro del Libano per portare aiuto come assistente sociale alle persone che nell’ultima guerra hanno perso la casa, quando non i familiari e gli amici. Ma non è questo quello che rende speciale Sara, cristiana libanese poco più che ventenne e collaboratrice della Caritas locale. A renderla speciale è il fatto di aver scelto di restare a vivere a Ain Ebel, un villaggio cristiano a una manciata di chilometri dal confine con Israele, da dove, già prima della guerra, la maggior parte dei suoi coetanei prendeva il volo per andare a studiare a Beirut. In collaborazione con l’Ong italiana Avsi, Sara seguiva, già prima del conflitto, le adozioni a distanza di bambini. «Ci siamo conosciute così», racconta Maria Zecchini, da quattro anni in Libano insieme al marito per seguire i progetti di sostegno a distanza di Avsi. «Dopo la guerra sono ancora di meno le persone che tornano, persino i genitori di Sara si sono trasferiti nella capitale. Nonostante le loro insistenze lei è voluta restare. “Non voglio andare via – ci dice sempre – il mio villaggio è questo e io voglio restare e fare quello che posso per aiutare la gente di qui”». Durante il conflitto con Israele, secondo quanto riportato dall’agenzia cattolica Asianews, il 70 per cento dei cristiani si diceva esausto e intenzionato ad andarsene. Il rischio dell’esodo resta alto anche oggi e non solo per via delle case distrutte e dei ponti abbattuti. «Tornando in Libano dopo la guerra – racconta Maria – la cosa che ci preoccupava di più erano le condizioni in cui avremmo trovato i nostri amici e le persone con cui lavoriamo. E non solo dal punto di vista fisico». La guerra civile è ben più che un ricordo nella mente di tutti i libanesi. Anche per chi allora era poco più che un bambino la speranza è sempre stata quella di risparmiare ai propri figli un’esperienza analoga. E invece è successo quello che si scongiurava con tutte le forze. «Qualche giorno fa – racconta padre Antoine Khadra, presidente dell’Unione dei giornalisti cattolici in Libano – ho incontrato una famiglia che dal 1981 ad oggi ha ricostruito la casa sette volte». In questo giorni Maria accompagna spesso suo marito, perito agrotecnico, nel sud del paese, dove Avsi porta avanti progetti agricoli; dopo 34 giorni di guerra i sistemi di irrigazione dei campi sono distrutti e i contadini che hanno già perso il raccolto di quest’anno non possono permettersi di restare a mani vuote anche l’anno prossimo. «Ci sono bombe inesplose ovunque, persino in mezzo agli alberi di banane» racconta. «Noi siamo qui per aiutare la gente a continuare a lavorare, ma non nascondo che a volte sembra impossibile. Se non fosse per la loro voglia di ricominciare e di ricostruire». El Qauzah è un villaggio cristiano all’estremo sud del paese. Durante la guerra è stato abbandonato dagli abitanti, rifugiatisi in gran parte a Beirut, e utilizzato dalle truppe israeliane come accampamento per 21 giorni. Tornando, gli abitanti hanno trovato case distrutte, mobili sventrati, vetri rotti, la chiesa adibita a dormitorio. Quando Maria e Sara sono arrivate per verificare le necessità della gente non c’era una famiglia che non stesse lavorando alla ricostruzione. «In una casa che, da quel che si poteva capire, doveva essere poverissima anche prima della guerra, abbiamo incontrato due signore molto anziane. Stavano lavorando per rimettere a posto la casa e gli abbiamo chiesto di cosa avessero bisogno. Una domanda persino retorica in un certo senso, perché vedevamo noi stesse che in quella casa non c’erano più neppure i vetri e anche solo l’arrivo dell’autunno sarebbe stato di-sastroso per due donne oltre la settantina. Ebbene, loro ci hanno risposto, col sorriso sulle labbra “Non abbiamo bisogno di nulla. Però tornate a trovarci”».
Nel suo lavoro come presidente della stampa cattolica libanese (Ucip Liban), padre Antoine Khadra ha a che fare con la medesima voglia di ricominciare e soprattutto col bisogno di compagnia e di condivisione delle persone che incontra. «Certo, tutti si fanno la stessa domanda: “quello che oggi ricostruiamo sarà ancora in piedi domani o l’ennesima guerra arriverà a distruggere di nuovo tutto?”. Come giornalisti abbiamo realizzato uno spot televisivo per trasmettere un messaggio semplice eppure fondamentale per sostenere la speranza di chi resta: no-nostante la guerra il Libano è risorto di nuovo». Canzoni che parlano di pace, dirette tv dal sud del paese: le iniziative non mancano.
Il vulcano Sobhy Makhoul
Durante il conflitto Ucip Liban ha assistito giornalisti libanesi e internazionali nello svolgimento del loro lavoro. «Poco tempo fa ci siamo incontrati con tutti gli inviati che hanno vissuto la guerra, per raccontare prima di tutto a noi stessi quello che avevamo visto». Padre Antoine racconta di un collega che si era recato a Beit Jbeil, al confine con Israele. Sentendo un grido provenire da una casa è entrato e ha trovato una madre che aveva bisogno di acqua per il suo bambino. Le ha dato l’unica bottiglia che aveva ed è rimasto per un giorno e mezzo senz’acqua. Altri colleghi hanno lasciato le telecamere per aiutare le persone in difficoltà. «Ho conosciuto i giornalisti – continua – provati e colpiti da quel che vedevano, tanto da dimenticare quasi la propria carriera a un certo punto per essere uomini tra gli uomini e portare il proprio aiuto». In mezzo alle macerie che mostrano le nostre televisioni ci sono dei sorrisi, delle volontà di ferro, delle speranze incrollabili. In Libano, come in Terra Santa; a Beirut, come a Gerusalemme. «Voi sentite parlare del Medio Oriente alla televisione e vedete solo le difficoltà, l’odio, i conflitti». Sobhy Makhoul, diacono cattolico maronita che vive a Gerusalemme non vuole essere trattato come una sorta di eroe. «Certo, noi cristiani in Medio Oriente non viviamo in una situazione facile, ma non vogliamo compassione e noi stessi non ci piangiamo addosso. Io dico sempre ai miei amici: se Cristo è risorto di cosa abbiamo paura?».
Così fioriscono attività per rispondere ai bisogni della gente. «Penso all’attività della Cooperativa opere della fede di Betlemme – dice – con cui abbiamo aiutato tantissimi artigiani a vendere i propri prodotti e soprattutto, proprio negli ultimi tempi, alla traduzione in arabo del Senso religioso». L’avventurosa traduzione del testo fondamentale del pensiero di don Luigi Giussani è stata raccontata al Meeting di Rimini dello scorso agosto dallo stesso Sobhy e da due accademici egiziani musulmani. «A Rimini abbiamo iniziato, per così dire, a pubblicizzare questa traduzione importantissima, adesso è la volta di diffonderla nella nostra terra». Sobhy Makhoul è un vulcano di idee e progetta entro la fine dell’anno una presentazione ufficiale a Gerusalemme e, appena possibile, lo sbarco al Cairo e a Beirut. «Sono convinto che il carisma di don Giussani sia uno strumento prezioso nelle mani dei cristiani per rilanciare un dialogo vero con il mondo musulmano. E non solo per noi che viviamo in Medio Oriente. C’è da fare un grande lavoro anche in Europa, dove ci sono tante comunità arabe. Questo libro è prezioso anche per voi. È prezioso dovunque ci sia qualcuno che cerca qualcosa, europeo, arabo, cristiano o musulmano che sia».
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