
L’utopia? Un ossessione carceraria
Cento milioni. C’è del vero nel detto “ne uccide più la lingua che la spada”, ma dopo aver letto “La fine dell’innocenza” di Pierluigi Battista (Marsilio, 156 pagine, 22.000 lire) ci si convincerà che ne ha uccisi di più l’utopia. Ne ha uccisi di più il sogno, trasformato in progetto, di un mondo perfetto. Differentemente dall’“Utopia” di Tommaso Moro o dalla “Città del Sole” di Tommaso Campanella, il sogno utopico del comunismo ha avuto la possibilità, in questo secolo, di diventare realtà e di lasciare dietro di sé cento milioni di morti. Ma, chissà perché, si fa fatica a indicare questo totalitarismo come male, “il” male resta l’altro totalitarismo, il nazi-fascismo. Il socialismo continua a godere, come diceva François Furet, del “beneficio delle buone intenzioni”. L’ideale che ha mosso i volenterosi carnefici rossi in Russia, in Cina, in Cambogia, a Cuba, in molti paesi dell’Africa e dell’America era e resta “buono”. Chi ha voluto metterlo in pratica l’ha tradito. Battista usa le 154 pagine del suo saggio – che insieme all’accuratezza del ricercatore gode della leggibilità dovuta alla felicità della penna – per dire che anche il comunismo non è mai stato innocente: nella sua realizzazione e nemmeno nei suoi ideali. Non è questione di tetra contabilità dei morti. Il difetto, la perversione, sta nel manico. Il socialismo non è una buona idea andata a male. E’ una cattiva idea, ed è tale perché utopistica. Battista mostra questo suo giudizio conducendoci, come in un reportage, dentro le mura di questa “città ideale” vagheggiata da Moro prima e da Campanella poi. Il viaggiatore che vi giunge resta colpito innanzitutto dal suo arroccamento, dalla mole dei divieti e dall’ossessione carceraria che le anima. Scrive Battista che “l’ossessione carceraria (…) è nutrimento essenziale di una visione politica che vede nel momento autoritario e repressivo la chiave di volta della costruzione della Città ideale. Sembra un paradosso, ma è la quintessenza del destino politico dell’utopismo: rinchiuso in una cella per scontare un ‘delitto d’opinione’, Campanella costruisce tuttavia un modello di organizzazione politica che vede nel dissenso d’opinione il peccato senza dubbio più grave e imperdonabile”. Perso nella costruzione del suo progetto ideale l’utopista perde i contatti con la realtà, anzi la elimina e “anziché rassegnarsi alla storia come inevitabile regno dell’imperfezione, ritiene di aver individuato con infallibile precisione le cause del Male e il rimedio chirurgico in grado di strappare sulla pelle dell’umanità il bubbone morale che ne deforma l’esistenza”. Deciso a raddrizzare il “legno storto dell’umanità” l’utopista appronta interventi di “ortopedia sociale”, e il suo fine gli sembra troppo importante “per disputare sulla qualità morale dei mezzi messi al suo servizio”. “Rivoluzione è dunque il nome moderno dell’Utopia”, “negazione radicale del mondo presente” (Pellicani).
I morti del comunismo erano dunque già scritti nel suo Dna. Né più né meno di quelli del nazismo. Eppure ancor oggi si guarda con sospetto a chi volesse “comparare” i due totalitarismi. Chi lo fa è tacciato di revisionismo e accusato di voler “banalizzare l’orrore assoluto dell’Olocausto”. Perché, si chiede Battista “la dimenticanza del Gulag dovrebbe essere il terribile prezzo per conservare vivida la memoria di Auschwitz? Che cosa si teme, forse che il nome di Salamov possa trascinare nell’oblio quello di Primo Levi? E se mai fosse possibile una simile terrificante concorrenzialità mnemonica, come mai non ci si preoccupa dell’eventualità che sinora possa essere accaduto il contrario, anche, beninteso, sulla base delle migliori intenzioni e nell’assoluta buona fede? (…) Perché a nessuno Spielberg viene in mente a mo’ di parziale (molto parziale) risarcimento simbolico, di dedicare un kolossal avvincente e avventuroso su uno Schindler sovietico?”. Le domande di Battista sono queste e altre ancora. L’ipotesi di risposta è sostanzialmente una: “l’attaccamento all’utopia assolve gli artefici dei ‘crimini’ e condanna una seconda volta (e stavolta all’oblio eterno) le vittime dei crimini compiuti nel nome di quella che ancor oggi viene considerata, malgado il suo conclamato fallimento, una generosa utopia. L’autoinnocentizzazione (…) non tollera che utopia e Gulag vengano messi in relazione troppo stretta”.
Diceva a un gruppo di universitari don Luigi Giussani nel 1976. Solo la coscienza della realtà, della condizione dell’uomo, di quel desiderio di felicità che lo anima e di quel vulnus chiamato peccato originale (dimenticato o negato dall’utopista moderno) che lo fa decadere, permettono un approccio non violento nei confronti del mondo. Battista, invitando gli utopisti a rinunciare a voler sradicare il male per legge, parla di accettazione dell’“imperfezione”, di realismo riformatore. Diceva G. K. Chesterton, paragonando la logica dell’utopia alla lucidità del pazzo, che il ragionamento del pazzo o dell’ideologo sono perfettamente coerenti, chiusi in sé, rotondi, come lo sono il mondo e una palla di piombo. Il problema è che il mondo è più grande di una palla di piombo.
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