
«L’uscita della Grecia dall’euro sarebbe una tragedia collettiva»
A causa delle elezioni presidenziali francesi e delle amministrative italiane, i risultati delle politiche greche sono passati in sordina ma ha un’enorme rilevanza. Il partito della Nuova Democrazia di Antonis Samaras, che gravita attorno al centrodestra, ha vinto con una percentuale molto misera: 19, 2 per cento. A seguire Syriza, il gruppo di sinistra radical-europeista di Alexis Tsipras, con il 16,3 per cento dei consensi. Sull’ultimo gradino del podio Pasok, formazione socialista di Evangelios Venizelos, al 13, 6 per cento. Con il 7 per cento delle preferenze, fa il suo ingresso in parlamento il gruppo Alba Dorata, di estrema destra, fascista e anti-tedesco. In un panorama così sfaccettato, il vincitore Samaras non è riuscito a formare una coalizione forte in grado di governare e per questo il compito di provare a formare un governo di maggioranza è passato a Tsipras. Ma la Grecia naviga ancora in acque tempestose. E a risentirne saranno soprattutto i mercati finanziari. Tempi.it ne discute con il giornalista greco Dimitri Deliolanes.
Perché Samaras non ha accettato l’incarico?
In queste elezioni si prevedeva un terremoto politico forte, ma lo scenario è stato catastrofico. Un governo di coalizione tra Nuova Democrazia e i socialisti del Pasok non poteva reggere. E anche adesso non esiste alcun tipo di maggioranza in base all’aritmetica parlamentare.
Con questi risultati, non è possibile gestire un governo di coalizione?
Ci vorrebbe un grandissimo sforzo di fantasia. Le due maggiori forze politiche dovrebbero concorrere e in tempi brevi dialogare e cooperare per il bene dello Stato, trovando punti in comune e dimenticandosi di ciò che li divide. In Grecia abbiamo sempre avuto, culturalmente, governi monocolore, senza coalizioni tra parti diverse.
Perché l’incarico di Samaras è stato assegnato ad Alexis Tsipras?
La Costituzione greca prevede che se il vincitore non accetta l’incarico di governo si passa direttamente al secondo partito di maggioranza. In caso anche il secondo si ritiri, al terzo partito – in questo caso, il Pasok di Evangelos Venizelos. Nel caso anche il terzo abbandoni, il capo dello Stato convoca i leader politici e suggerisce le indicazioni da prendere per risolvere il problema di governabilità. Se neppure le sue indicazioni vengono accettate, si ricorre a nuove elezioni.
Cosa significherebbe quest’ultimo scenario per la Grecia?
Il problema del governo è strettamente collegato alla crisi. I risultati elettorali hanno dato una visione fortemente critica verso le politiche d’austerity europee. Le misure intraprese dall’Unione europea, a detta dei greci, non aiutano ad affrontare la recessione. Ci vuole un governo che affronti con forza la questione e in termini interni alla politica. Altrimenti, le ricadute toccheranno tutta l’Europa. L’uscita della Grecia dall’euro sarebbe una tragedia collettiva.
Era prevedibile l’exploit di Alba dorata?
Sì, era prevedibile. È una deriva preoccupante e insana, ma prevedibile. E mostra la poca lungimiranza delle forze politiche democratiche al grave problema dell’immigrazione. Arma, invece, che ha usato il gruppo di estrema destra, proponendo una risoluzione che non condivido, ma che risponde al comune sentimento di abbandono.
È giusto paragonare l’allontanamento dai partiti storici greci con l’antipolitica italiana?
No. Certamente no. È un paragone fuorviante. In Grecia non abbiamo una rivolta contro la politica, ma una rivolta contro un preciso sistema di governo bipartitico, che ha governato per 40 anni ed è responsabile della crisi economica. Ma la reazione è rimasta “all’interno” della politica, e ha provocato uno spostarsi del voto verso la sinistra radicale ed europeista.
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