
L’uomo che da 24 Marzo ripete:”fermati,Nato”
A Piazza san Lorenzo in Lucina, numero civico 26, il mattino ha l’oro in bocca e il senatore Giulio Andreotti (“Presidente” per antonomasia giacché per sette volte sedette sulla poltrona che ora è di D’Alema) ) ha già concluso la quotidiana lettura dei giornali. Alla venerabile età di ottantanni, il grande vecchio della politica estera italiana siede come un patriarca dietro la sua scrivania, fresco e agghindato di tutto punto, giacca e cravatta, tonico e gioviale. Poi, sul tema che da quasi due mesi ha attirato le sue preoccupazioni e dal quale non lo distolgono né la conferenza su Padre Pio, né una presentazione della versione in lingua cinese di Cicerone, sale in cattedra e dimostra quanta competenza e quale passione occorrano per essere un grande uomo politico.
Presidente, italiani e tedeschi invocano uno stop ai raid per verificare la disponibilità di Milosevic ad accettare i punti richiesti dal G8. Lei crede davvero che ci sia uno spazio per fermare una guerra di cui anche l’Italia sembra divenuta ostaggio?
Fin dal primo giorno dei bombardamenti contro Belgrado avevamo prospettato l’inadeguatezza e l’incongruenza di un intervento militare estraneo ai fini istituzionali della Nato, i quali, prevede il trattato, sono esclusivamente di difesa e di reazione alle aggressioni. Fin dagli inizi di questa guerra abbiamo detto: solo l’Onu e l’Osce possono autorizzare un’eccezione, dunque occorre fermare i raid. Le cose, come sappiamo, sono andate diversamente. Adesso bisogna vedere come uscire da questo conflitto che, si è detto, segna il passaggio a una “nuova strategia” della Nato, a un disegno orientato a istituzionalizzare la dilatazione dei compiti della Alleanza militare atlantica.
Americani e inglesi sembrano decisi a sostenere fino in fondo l’intervento contro la Jugoslavia in ragione della particolare finalità umanitaria dell’azione militare…
Non dico che in quanto accade in Kosovo non sussistano caratteri di eccezionalità, dico che, così come si sta realizzando, l’intervento della Nato prefigura un nuovo Trattato atlantico. La qual cosa richiede un coinvolgimento di tutti i paesi membri e un atto formale di ratifica.
Non le sembra che, a questo riguardo, almeno fino all’emergere del recentissimo asse Roma-Berlino, il governo italiano abbia tenuto una posizione troppo defilata rispetto alle decisioni della Nato e della sua leadership anglo-americana?
Non è una questione di governo. Qui il problema è che se si continua ad ammettere che un trattato internazionale possa essere esteso automaticamente per realizzare finalità e adempimenti nuovi, e comunque differenti da quelli previsti attualmente dallo stesso trattato, si finisce per sottrarre poteri istituzionali che la nostra Costituzione attribuisce al Capo dello stato e al Parlamento.
Lei continua ad appellarsi ai contenuti formali dell`Alleanza. Ma è anche vero che in questi cinquant’anni che ci separano dalla sua formulazione è finita l’epoca della guerra freddae sono sorti nuovi istituti come il Tribunale penale internazionale . Insomma il diritto ha avuto un’evoluzione…
È vero che dopo gli accordi di Helsinki e il trattato di Parigi ai cittadini di qualsiasi paese, qualora non si sentissero sufficientemente garantiti nel loro stato, è consentito di far valere i propri diritti in sede sovrannazionale. Il diritto internazionale ha dunque stabilito la legittimità di un’ingerenza all’interno dei confini di ogni singolo stato. Il problema è: la guerra contro la Jugoslavia è stato ed è un intervento effettivamente proporzionato agli obbiettivi che si prefiggeva? Quanto al tribunale internazionale, l’Italia ha sottoscritto l’accordo e sta partecipando attivamente alla sua realizzazione. Non mi risulta invece che l’abbiano sottoscritto paesi come gli Stati Uniti e la Cina.
Ammettiamo pure che i fatti le stiano dando ragione. Il dilemma rimane: in quale altro modo si poteva indurre il regime di Belgrado a fermare la macchina della brutale repressione in Kosovo?
Ad esempio con gli strumenti delle sanzioni economiche e dell’embargo. Che sono poi gli strumenti con i quali le democrazie occidentali si sono confrontate con il razzismo sudafricano e sono infine riuscite a sconfiggere il regime dell’apartheid. Non ci siamo mai sognati di andare a bombardare Pretoria o Città del Capo.
Le si potrebbe obbiettare che dopo quanto si è visto in Bosnia, se non ci fosse stato un duro intervento militare, il tempo avrebbe lavorato a favore del regime di Milosevic…
Mi pare un ragionamento un po’ bislacco questo di bollare chi fa obbiezioni ai raid come insensibile e, dunque, sostenitore di Milosevic. Mi pare che anche in ambienti angloamericani sono stati avanzati molti dubbi sul fatto che, per evitare che si prolungasse il sistema persecutorio nei confonti dei kosovari, sia stata una risposta proporzionata mettere a ferro e fuoco la Jugoslavia, costringere all’esodo l’intera popolazione del Kosovo, mettere di fatto i profughi nella condizione di finire schiacciati tra l’incudine della repressione serba e il martello delle bombe alleate.
Uno degli obbiettivi dell’azione militare è, come esige uno dei punti richiesti dal G8 per la sospensione delle ostilità, costringere Milosevic ad accettare gli accordi di Rambouillet…
Anche qui: almeno formalmente a Rambouillet si è sempre parlato di autonomia del Kosovo. E invece poi siamo stati messi di fronte al fatto compiuto dell’Uck come esercito di liberazione nazionale. Si parla di autonomia ma intanto si sostiene di fatto un’azione militare che dichiara apertamente di voler perseguire la piena indipendenza del Kosovo dalla Jugoslavia.
Se Hitler fosse stato fermato prima l’Europa non avrebbe conosciuto l’Olocausto. Così, si dice, bisogna trarre lezione dalla storia ed evitare di ripetere con Milosevic l’errore commesso con Hitler..
L’osservazione può essere vera per quanto riguarda Hitler, ma non mi sembra che il regime di Belgrado sia un’entità comparabile al Terzo Reich.
Mi scusi, però lei all’epoca della guerra del Golfo non stava con i pacifisti, stava con Bush e con i sostenitori della “guerra giusta”…
La guerra nel Golfo è stata provocata dall’occupazione da parte dell’esercito irakeno di un paese sovrano, il Kuwait, è stata condotta sotto l’egida dell‘Onu e aveva come obbiettivo preciso e delimitato quello di ristabilire il diritto internazionale violato e restituire la sovranità a un paese che era stato occupato in violazione di tutti i principi. Mi pare cosa tutt’altro differente da un intervento deciso, pianificato e realizzato solo dalla Nato.
Lei crede che questo conflitto in Jugosla-via metterà in discussione la funzione e il valore dell’Alleanza atlantica?
Mi auguro proprio di no. Nei cinquant’anni che ci separano dalla sua creazione la Nato ha svolto una funzione essenziale per la crescita della democrazia e lo sviluppo della pace in Europa. È grazie al patto Atlantico che l’aggressore si è dissolto, perché non bisogna dimenticare che l’Unione Sovietica non solo diffondeva nel mondo la dottrina della “sovranità limitata” ma in Europa l’ha anche attivamente praticata come dimostrarono l’invasione dell’Ungheria e della Cecoslovacchia.
Specie nel mondo anglosassone lei viene indicato come il simbolo di un’Italia non affidabile, ambigua e incoerente in politica estera. Viste le nostre attitudini un po’ ballerine, lasciano intendere certi osservatori anglosassoni, anche in questo conflitto c’è da aspettarsi una nostra giravolta…
Stiamo ai fatti. La politica estera italiana in questi cinquat‘anni ha avuto uno svolgimento coerente e lineare. È talmente vero tutto ciò che dopo aver sostenuto per trent’anni la dura opposizione comunista alla Alleanza Atlantica, grazie alla nostra politica, a partire dal 1977 anche il Pci cambiò rotta e dichiarò la propria adesione alla Nato. Altro che Italia ballerina, siamo stati un alleato fedele e prezioso, la nostra lealtà è ineccepibile. Certo, se adesso la Nato da strumento di deterrenza e di difesa si trasforma in qualcosa di sostanzialmente nuovo e diverso, mi pare ovvio che tali cambiamenti divengano oggetto di discussione. Il fatto stesso di essere un’ “Alleanza” implica la necessità che avvenga un confronto tra i paesi che di tale alleanza sono membri.
Forse quando si pensa alla politica estera italiana i nostri detrattori le attribuiscono qualche sgarbo fatto agli americani nello scacchiere mediorientale…
Senta, fino alla fine degli anni Ottanta Yasser Arafat e il suo movimento erano considerati dei terroristi. Arafat fu ospite del governo italiano a Roma all’epoca in cui gli Stati Uniti non concedevano il visto di entrata al leader dell’Olp e l’Onu doveva tenere una seduta straordinaria a Ginevra per consentire ad Arafat di prendere la parola nel consesso delle Nazioni Unite. Poi, grazie anche al nostro ruolo in Medioriente il processo di pace ebbe una grande accelerazione e Arafat è oggi ricevuto come capo di Stato alla Casa Bianca. Dunque, anche rispetto alla complicata situazione mediorientale l’Italia ha avuto un ruolo positivo e utile alla creazione di quelle condizioni che hanno poi permesso l’avvio del processo negoziale di Madrid. Sia chiaro, io non metto in dubbio la leadership americana, leadership legittima essendo gli Stati Uniti il paese che si assume i maggiori impegni politici e oneri economici per il mantenimento della pace a livello mondiale. Dico soltanto che è nello stesso interesse di Washington che paesi alleati come l’Italia svolgano un ruolo non passivo all’interno del Patto atlantico. Nessuno nega che l’America debba contare più degli altri partner, ma ripeto la nostra è un’alleanza e dunque le azioni vanno discusse insieme. Cosa sarebbe accaduto all’epoca del blocco di Berlino se la Nato avesse risposto con la forza a quella aggressione sovietica? Allora la risposta occidentale fu straordinariamente fantasiosa, fu uno spettacolare ponte aereo che conseguì pacificamente il doppio risultato di liberare la popolazione tedesca dall’isolamento e al tempo stesso di battere i progetti di Mosca. Oggi l’Unione sovietica non esiste più, ciò non toglie che abbiamo il dovere di recuperare questa creatività, deporre le armi e pianificare interventi in cui la guerra sia davvero l’ultimo dei deterrenti immaginabili.
Dopo l’azione in Kosovo c’è chi perora la causa di una trasformazione della Nato in compagine militare al servizio e difesa della democrazia in tutto il mondo. Cosa ne pensa?
Mi sembra un’ipotesi fantasiosa e pericolosa. Noi sappiamo che su questo pianeta ci sono molti paesi che non condividono i nostri principi di democrazia. Chi decide qual è la soglia democratica minima per non cadere nelle nostre sanzioni? Cosa succederà ai paesi che non abbracciano il modello politico occidentale? Bombarderemo Pechino?
Torniamo alla sua osservazione iniziale: “bisogna uscire da questa guerra”. Come?
Devo dire che l’idea del nuovo commissario europeo di una conferenza sui Balcani dovrebbe essere valutata più attentamente. D’altra parte anche gli accordi di Dayton stanno dimostrando tutta la loro fragilità e dunque richiederanno degli aggiustamenti. Uno degli obbiettvi fondamentali dell’intesa di Dayton era quello di riportare i profughi nei loro paesi e nelle loro case in Bosnia. Purtroppo sappiamo che è ben lontano dall’essere stato conseguito. Dunque io dico: in primo luogo occorre uscire da questa guerra, secondo l’Europa assuma una posizione di più alto profilo nell’area balcanica. E qui più che alla Nato penso al ruolo che potrebbe avere l’Organizzazione di sicurezza e cooperazione europea. Non mi sembra un’idea così balzana pensare alla costituzione di una polizia europea che intervenga in caso di crisi a livello regionale-continentale.
E per quanto riguarda l’Italia, che posizione consiglia di tenere al governo D’Alema?
C’è una posizione lineare sulla quale non ho trovato nessuna obbiezione in sede di Comissione esteri del Senato: il Parlamento discuta della cosiddetta “nuova strategia” della Nato. Si discuta ed eventualmente la si approvi, ma è inutile che si continui a ripetere che l’intervento non esula dagli adempimenti previsti nel trattato. Se dentro una scatola di caramelle c’è della nitroglicerina mi pare sia difficile che la semplice dicitura “caramelle” apposta sulla scatola possa trasformare il suo contenuto da esplosivo in dolciumi. I fatti stanno a dire che la Nato si sta muovendo secondo principi e finalità diversi da quelli sottoscritti dai paesi che ne fanno parte. Ripeto, io non dico che questi principi e finalità non possano essere condivisibili, dico che è quanto mai necessario discuterli e, se è il caso, ratificarli, ma non si può continuare a chiamare “operazione militare” quella che, a tutti gli effetti, è una guerra.
Le si potrebbe di nuovo obbiettare che le sue sono preoccupazioni puramente formali…
Ma il rispetto delle forme è una delle prime regole del diritto. Senza forme non esiste diritto.
Lei condivide o no il principio dell’ingerenza umanitaria?
Condivido il principio secondo cui non ci può essere una sovranità talmente impermeabile da consentire a chicchessia di compiere crimini al riparo dei propri confini. Ma occorre chiarire: chi giudica questi crimini? Io credo ancora nel ruolo dell’Onu.
Molti sostengono che l’Onu si è dimostrato uno strumento debole e inadeguato…
Sarà anche debole e inadeguato, ma questo è lo strumento che per cinquant’anni ci ha evitato un sacco di guai.
Anche illustri intellettuali di sinistra sostengono che la Nato funzioni meglio dell’Onu…
Sì, è vero, è una strana congiuntura la nostra e deve avere qualche addentellato con gli strati profondi del subcosciente. Chi un tempo manifestava contro la Nato, oggi è più realista del re.
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