L’ossessione antiamericana

Di Rodolfo Casadei
05 Settembre 2002
Perfino nell’anniversario dell’11 settembre l’animosità antiamericana non riesce a tacere. Alcuni intellettuali italiani indagano le ragioni di questa ossessione

iente da fare, non c’è pace né rispetto neanche per i morti. Siamo alla vigilia del primo anniversario degli attentati dell’11 settembre e il clima che si respira non è quello del commosso omaggio alle vittime, ma quello di una nuvola tossica di antiamericanismo. Stavolta però la protervia dell’operazione comincia a provocare una rivolta morale e intellettuale che, forse per la prima volta da quando esiste il fenomeno, mette a fuoco la vera natura dell’antiamericanismo. La mostra del cinema di Venezia ha pensato bene di “rendere omaggio” alle vittime del terrorismo presentando un film di produzione francese intitolato 11’09”01. Sono undici episodi di altrettanti registi della durata di 11 minuti e 9 secondi ciascuno. Risultato: il regista egiziano Youssef Chahine fa dire ai suoi personaggi che «gli Stati Uniti e Israele sono democrazie e i governi sono eletti dai cittadini, per questo è legittimo colpirli»; l’inglese Ken Loach dedica il suo cortometraggio al golpe cileno dell’11 settembre 1973 e dichiara che «l’attacco era inevitabile: il governo americano non può continuare ad agire come fa da molti anni senza collezionare nemici»; l’americano Sean Penn propone l’apologo di un pensionato povero ed emarginato, i cui gerani esposti sul davanzale stentano a causa della sempiterna ombra delle Twin Towers: dopo l’attentato finalmente riprendono a fiorire.
«L’antiamericanismo fondamentalista è soprattutto un fenomeno americano», reagisce Diego Gabutti, giornalista e scrittore. «è negli Stati Uniti, infatti, che dagli anni Sessanta in poi sono state affilate le armi dialettiche che oggi Sean Penn e gli altri, in nome della cultura radical-chic, puntano contro l’America dalla trincea un po’ patetica del Festival di Venezia». Guarda caso, lo stesso periodo in cui maturava il terzomondismo, fenomeno con cui l’antiamericanismo ha più di un’affinità: entrambi sono il prodotto della secolarizzazione del cristianesimo; entrambi sostituiscono al peccato originale religioso un peccato originale politico (il colonialismo europeo nel primo caso, il neo-imperialismo americano nel secondo) che ha sfigurato il mondo; entrambi attendono una redenzione tutta politica dai nuovi Messia: i popoli delle ex colonie nel primo caso, i combattenti anti-imperialisti (vietnamiti, cubani, ecc.) e le minoranze etniche e culturali (afroamericani, indiani, hippies, ecc.) nel secondo.

Il risentimento per i salvatori
Per Massimo Teodori, ex deputato radicale che insegna Storia dell’America all’università di Perugia ed è autore del libro Maledetti americani (Mondadori, 2002), l’anti-americanismo nasce dal rancore delle ideologie sconfitte, il fascismo e il comunismo: «L’antiamericanismo è l’ostilità di chi è contrario all’individualismo, al capitalismo, alla democrazia liberale. è la malattia psicologica dei perdenti che sono condannati a confrontarsi con una realtà viva come quella americana». Ida Magli, antropologa e saggista, ritiene che nell’antiamericanismo sia presente anche il rancore di chi dagli americani è stato beneficiato: «In tutte e due le grandi guerre -scrive nel suo polemico Contro l’Europa (Bompiani, 2001)- è stato l’intervento dell’America a deciderne le sorti. Questo ha comportato la frustrazione di quelli che hanno perso, ma soprattutto la frustrazione di quelli che hanno vinto. Non è necessaria la psicoanalisi per sapere quanto sia ambivalente e, alla fine, negativo il sentimento che suscita un “salvatore”. D’altra parte, la forza e la ricchezza americane, quanto più sovrastano gli altri, tanto più debbono essere disprezzate, ridimensionate sotto altre forme».

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