
Lorella Beretta dal Sudafrica: Te Deum laudamus perché sono di nuovo viva

Come da tradizione, anche nel 2014 l’ultimo numero del settimanale Tempi è interamente dedicato ai “Te Deum”, i ringraziamenti per l’anno appena trascorso firmati da diverse personalità del panorama sociale, culturale e civile italiano e non solo. Nella rivista che resterà in edicola per due settimane a partire dal 31 dicembre, troverete, tra gli altri, i contributi di Angelo Scola, Asia Bibi, Louis Raphaël I Sako, Fausto Bertinotti, Luigi Amicone, Renato Farina, Mattia Feltri, Fred Perri, Aldo Trento, Pippo Corigliano, Annalisa Teggi, Alessandra Kustermann, Mario Tuti.
Pubblichiamo qui il “Te Deum” di Lorella Beretta, giornalista milanese ex redattrice di Radio Popolare che due anni fa si è trasferita a Stellenbosch, Sudafrica, dove tutt’ora vive, scrive e lavora nel turismo.
«Modo migliore di evitare pugno… è di non essere lì». Karate Kid non è solo «metti la cera, togli la cera», che pure è un esercizio serio e non facile di postura, di radicamento a terra e tensione verso il cielo. Di presenza. Quel non essere lì non è questione di assenza, ma del suo esatto contrario. In una serata milanese in cui progetto il ritorno nel mio amato Sudafrica, riguardo la lezione del maestro Miyagi e penso a quello che mi è successo in questo lungo anno, ai pugni presi e scartati e al fatto che nonostante tutto non ho rinunciato a essere qui.
Sono fortunata, in questo momento ho poche certezze se non che sono fortunata e viva, ancora di nuovo viva. Scrivo colpita dal suono di un’ambulanza che ho dovuto chiamare per un’anziana dai bellissimi occhi blu, sgonfiatasi sulle sue gambe in un giardino pubblico. Scrivo gravata dalla mia inutilità nel leggere una mail di un amico che soffre un male ingovernabile, e che invece per me è stato d’aiuto in certi momenti. Scrivo rimpiangendo chi non ce l’ha fatta.
Ho rischiato di morire tante volte, nella mia vita. Quella che sembrava la più ineluttabile fu 28 anni fa: quando a 14 anni e mezzo mi svegliai da un coma profondo sentii tutti urlare al miracolo e vidi i medici inebetiti dall’inspiegabile caso. Tutti si aspettavano che mai e poi mai sarei tornata a cavalcare il Ciao bianco dal quale mi avevano sbalzata via, facendomi roteare nell’aria primaverile di una sera di maggio, contro un muro caldo di forno a legna pieno di pizze napoletane. Non sentii ovviamente il gracchiare disperato della sirena dall’ambulanza chiamata da chissà chi di cui però posso immaginare lo sguardo fisso sul sangue che poi mi dissero copioso. Invece sul mitico Ciao ci tornai che era quasi autunno, alle soglie dei 15 anni, subito dopo gli insistenti controlli neurologici che incredibilmente non segnalavano alcun danno, tanto che nemmeno l’assicurazione ci fece una grande offerta: io ero viva e convinsi i miei genitori a lasciar stare ogni ulteriore pretesa.
E poi di nuovo di recente mi è capitato di rischiare di morire: per mano mia o altrui. In tanti mi han chiesto “ti ha messo le mani addosso?”. E invece no, è successo di peggio, uno spegnimento giorno per giorno, cercando di isolarmi, trasformandomi in capro espiatorio, imputandomi una depressione che non era la mia, ma la sua. Me ne sono fatta carico e ho cominciato a studiare e per non farmi travolgere e risucchiare in un gorgo violento e definitivo ho praticato il perdono. Il punto di svolta è stato quel pensiero che non vi fosse soluzione in terra al delirio dell’anima in cui mi ero ritrovata: insomma, letteralmente pensavo che da quella situazione non sarei potuta uscire se non con un commiato a questa vita. Optai, in un momento di lucido attaccamento anche al profumo dell’aria, per quel percorso più complicato: perdere tutto e continuare a vivere. Cominciai spontaneamente a recitare il Padre Nostro, piangendo lacrime gonfie su quel «liberaci dal male». Lo recitavo in italiano da sola, a casa, al lavoro o nelle lunghe passeggiate; e in inglese «deliver us from evil» alla piccola chiesa cattolica di Stellenbosch dove un giorno father Wim disse a mia madre che stava tornando in Italia: «Lasci sua figlia nella sua nuova famiglia».
Incontri delicati e vitali
Sono viva ancora, anzi di nuovo viva, chi lo sa, anche stavolta per un miracolo, insomma. E per l’amore di tanti amici, ma tanti davvero, e anche questo mi pare abbia del miracoloso. E di una mamma che in tutto questo tormento di vita che le ho dato si è scoperta sempre più una donna forte e stupefacente, capace di prendere un aereo da sola Milano-Cape Town e poi Cape Town-Milano, superando a 73 anni la paura di volare, imparando a capire e farsi capire in inglese, conversando a gesti e mezze parole con domestici e docenti e miliardari. A farmi rinascere sono state anche antiche amicizie perse e ricomparse quasi per caso al momento giusto, sbucate fuori da una mail o da un social network. E poi piccoli incontri, delicati e vitali; poche parole sentite e donate gratuitamente senza preavviso; battute e risate sincere; anche piccole prese in giro di certi miei tic e atteggiamenti, con le quali sarei stata stupida a non concordare. Gente paziente con il mio carattere marziale.
Abbracci, preghiere, carezze, una mano che stringe la tua e la alza al cielo o che la sfiora tremante di emozioni, gli auguri di compleanno segnati nell’agenda del cuore o i fili del telefono che s’intrecciano per costruirti una rete in cui lasciarti andare, case ospitali e cuochi sopraffini, passaggi, viaggi e camminate, brindisi per festeggiare ma anche richieste di aiuto, confidenze intime, sogni difficili, delusioni dolorose. La mia gente o gente nuova destinata a rimanere o di passaggio e che comunque ha lasciato il segno. Gente vicina e lontana, di continenti ed emisferi opposti, colori di pelle i più vari, parcheggiatori e scrittori parimenti indaffarati, latitudini e paralleli che non si toccano, atei e credenti di tutte le religioni. Anche gente che non ha proprio idea di che miracolo abbia fatto con una semplice battuta. Anche quelli che han seguito le mie cronache sudafricane e come sempre il direttore che mi scrisse poche settimane fa: «Ti voglio ancora per il Te Deum, anche se non sarà forse rosa e fiori». E invece sì, anche quest’anno, grazie Dio, nonostante tutto quello che ho perso, grazie per il tanto che mi hai dato. Viva.
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