Lo stranocristiano

IL PRESIDENTE BUSH? UNA LUNGA STORIA DI DANNAZIONE E REDENZIONE, CADUTE E RIPRESE. I PREDICATORI, GLI AMICI E LA COMPAGNIA CHE GLI HANNO SALVATO LA VITA. E LA MOGLIE LAURA, INSOSTITUIBILE. SEMBRA UN FILM E INVECE È STORIA VERA. DEGNA DI UN RACCONTO ALLA FLANNERY O'CONNOR. DENTRO CI SONO TUTTI GLI STATES, IL PAESE DALL'ANIMA RELIGIOSA

«Gli uomini veri vivono per Cristo». Lo dice Chuck Norris, l’attore con il cappello a tesa larga che tira di karate che è un piacere in film sugli eroi del Vietnam e nel serial tivù della Cbs “Walker Texas Ranger”, e che però non farebbe male a una mosca. Norris (il testimonial prediletto dai veterani di guerra, il cui serial nel 1998 ha vinto l’Epiphany Award come miglior programma televisivo cristiano) si prodiga infatti per tirare fuori i ragazzi dal giro della droga ed è un born-again christian. Un “cristiano rinato” come il suo attuale presidente, George W. Bush jr., quello che nel 2000 definì Gesù il suo filosofo preferito. Il quale, invece che dalla droga, è uscito dall’alcolismo, sempre con Gesù. Norris si sente un cowboy di Gesù e Bush pure. In comune hanno la fede, il Texas (per entrambi Paese d’adozione), lo stile e l’essere americani. L’essere cioè quella miscela esplosiva di God Bless America e di conservatorismo del buon senso e delle piccole cose, il quale rimane tale quale anche se diventi l’uomo più potente del mondo o una star di Hollywood. Poca ideologia e molto campanile. In tutti i sensi.
Sono fatti così quegli Stati Uniti che i due giornalisti britannici di The Economist John Mickelthwait e Adrian Wooldridge definiscono Righ Nation in un libro già famoso anche in Italia appena uscito in traduzione per Mondadori con il titolo La destra giusta. Se però Bush jr. è un matto, allora significa che è il capo di una intera nazione di matti, quella che paga il biglietto per vedere al cinema un altro matto, Chuck Norris per esempio. Oppure il presidente Bush è un uomo normale, a capo di una nazione normale. E siccome la normalità è la capacità di sorprendere a ogni giro d’angolo, Bush e i suoi 280 milioni di cittadini a molti sembrano un po’ strani. Spesso degli strani cristiani. Anzi, degli stranicristiani. È si scatenano le filastrocche. Ammettiamolo: seriamente divertenti. Ecco dunque qua il Paese dei “teoconservatori” (quelli che Dio c’entra con tutto pure con la politica), degli “anarco-risurrezionalisti” (quelli che la libertà dei figli di Dio anzitutto), dei “laici con la tonaca”.

THE BUSH BROTHERS
C’è però che i media “illuminati” fanno fatica a comprenderlo il presidente degli Stati Uniti. Lui e pure suo fratello. A guardarli quei due germano – uno che governava il Texas e adesso fa il presidente, l’altro che governa la Florida testimoniando con il primo cosa voglia dire averle grosse così – s’impone un altro gioco: “The Bush Brothers”. George W. jr. e John Ellis detto “Jeb”, due figli su cui non sono ricadute le colpe del padre (George Bush senior, ex presidente) e che anzi il loro padre lo hanno (a noi) fatto dimenticare in fretta e volentieri, pur con la carità già praticata dai figli di Noè. Sono lì, i fratellini, e meno male. The Bush Brothers in missione per conto di Dio: come quegli altri, i Blues Brothers, sono poco più che degli avanzi di galera (quantomeno George), ma la grazia di Dio li ha toccati e ora se ne serve. Se ci fosse il bell’Antonio Salieri dell’Amadeus di Milos Forman impazzirebbe di gelosia, ma Dio non è democratico. E, come diceva quel George MacDonald che il suo discepolo Clive Staples Lewis cita nella propria autobiografia di convertito, Dio è assai poco discreto. Mette trappole dappertutto.

Donne e telepredicatori
Il presidente Bush è il secondo born-again alla Casa Bianca (il primo fu Jimmy Carter), ma il primo ad avere un passato da scavezzacollo alle spalle (scavezzacollo lo fu infatti anche Bill Clinton, ma lui non ha smesso mai). Il “caso” della sua fede è addirittura da televisione. Tanto che fra 2003 e 2004 la Pbs, la rete di Stato americana (l’unica), gli ha dedicato uno special ricco di testimonianze, interviste e documenti. Titolo: “The Jesus Factor”.
La religione nella cosa pubblica americana non è un fatto nuovo. A metà Ottocento, Alexis de Tocqueville notò che quella americana è una democrazia che funziona perché si fonda sullo spirito di religione. Religione allora come instrumentum regni? Al contrario: la politica utile serva dell’affermazione della libertà e dei diritti umani più importanti: quelli di credere e di appartenere a Dio. Frédéric Le Play giunse, in Francia, a considerazioni simili, lui che guadagnò l’idea cristiana, e soprattutto la Chiesa cattolica, solo lentamente, e che però quando lo fece, in studi stupendi sul ruolo centrale della famiglia e delle comunità nella costruzione di società giuste, lodò il ruolo pubblico svolto dalla fede negli Stati Uniti laici e addirittura l’operato del clero. E il tutto senza mai violare di uno iota quella benedetta separazione fra Chiese e Stato federale che ha permesso: 1) ai cattolici di divenire oggi (ma già da tempo) la maggioranza relativa in un paese in cui all’origine erano solo pulviscolo, 2) di non iniziare nemmeno per idea le tiritere su “laici” e “cristiani” perché lì laico vuole dire cristiano, e 3) di far calare la fede nel profondo del tessuto sociale e persino nella politica nazionale.
La fede televisivizzata di Bush non è però una fede televisiva. Nel clan Bush il fiore all’occhiello era Jeb. Come George, nato nel 1946 a New Haven, Connecticut, disse un giorno alla regina Elisabetta, «Beh, la pecora nera della famiglia sono io». Per lui le fortune di famiglia, accumulate grazie all’industria petrolifera, erano buone solo per il bar e la bottiglia gli stava pure fregando il matrimonio. Prima o poi Laura lo avrebbe lasciato. George tremava, ma non sapeva reagire. L’unico legame con la realtà erano le figlie. Per il bene loro la domenica seguiva la moglie alla funzione religiosa dei metodisti, quelli che considerano il credo episcopaliano dei genitori di George troppo liberal.
Un giorno fu invitato a predicare Billy Graham, e George lo sottopose a una sfilza di domande su fede, vita, morale, etc. Graham sarà pure un telepredicatore di quelli che la gente prende in giro, ma le sue risposte, amicali e cordiali, lavorarono la mente e l’anima del futuro presidente. Il quale poi si svegliò una mattina a Colorado Springs (dove si trovava per il party del suo compleanno) e scelse. Scelse la moglie e le figlie invece delle groupie e dell’alcool. In quel momento per lui significò scegliere “quel Gesù” che per Laura pareva essere tanto importante. Indietro non tornerà più. In realtà, come bene scrive della propria conversione C. S. Lewis, momenti come quelli sono solo l’inizio di un cammino duro e faticoso. Ma se all’origine non c’è la decisione improvvisa, folle, di darsi totalmente, non segue alcunché.

IL “PADRONE DEL MONDO”
Giunse presto, infatti, l’incontro con una comunità religiosa – laica – che a George seppe stare vicino, essergli amica, prenderlo per ciò che era invece di giudicarlo per ciò che aveva (i denari), avrebbe potuto essere (un uomo politico di successo) o faceva (la dedizione alla bottiglia). George cominciò allora a guardare il mondo con occhi diversi: non i propri – tutti ripiegati sulle sue devianze -, né quelli della famiglia – frustrati nelle proprie aspettative -, né quelli del mondo circostante, che ne segnava a dito i comportamenti scabrosi e indegni del suo buon nome.
Gli occhi nuovi furono quelli della fede, praticamente gli occhi con cui ti guarda Dio. George smise allora di commiserarsi e, senza cercare giustificazioni semplicistiche, si accettò. Sembra una favola, ma è la storia vera del 43° presidente degli Stati Uniti d’America, quello che il “mondo” definisce l’uomo più potente della Terra. Lui invece si sente uno salvato dal Signore per il rotto della cuffia. E concepisce la sua vita “di poi” come un continuo ringraziamento.

PER ISTIGAZIONE DELLA MOGLIE
Era il 1984 e aveva 39 anni quando cominciò a frequentare, nella piccola cittadina di Midland, i corsi di approfondimento della fede proposti dal capitolo texano della Community Bible Study. Un piccolo esercito di 120 uomini decisi ad affrontare con rigore e serietà lo studio delle Scritture. Il metodismo della moglie Laura e il credo battista del Sud degli States avevano un grande vantaggio sulla fede un po’ sociologica del progressismo episcopaliano. Comunicavano un senso di assoluto, di certezza e di pace non come la dà il mondo. Credevano insomma davvero in “quel Gesù” vero Dio e vero uomo. Di Midland restano, preziose, le testimonianze di tre compagni di studio, tre amici: Mark Leaverton (il fondatore della comunità), più Don Evans e Don Poage (che lo conoscevano sin da ragazzo). George frequentò la comunità fino al 1986, poi si trasferì a Washington per lavorare con il padre, allora vicepresidente di Ronald W. Reagan. Quei tre moschettieri dicono oggi di come a George quella comunità cambiò la vita. Di come rimase una compagnia duratura e sempre presente anche poi, anche quando la vita proseguì fuori di lì, allorché il “corso” finì cedendo il passo al “percorso”.
Per di più c’è il fratello. Jeb è cattolico per conversione. I più cinici dicono che si è convertito perché in Florida, lo Stato di cui è governatore, la maggioranza della popolazione è cattolica. In realtà, Jeb – pure Jeb – ha seguito la moglie. Come facevano nel Medioevo i re quando abbracciavano la vera fede su “istigazione” di mogli e di madri, in più di un caso sante (e magari poi santi pure loro, i mariti e i figli). Jeb supporta George in tutto. Facile, si dirà: non può mica infangare in pubblico il fratellone di cui magari sogna un giorno di prendere lo scranno alla Casa Bianca. Facilone, dico io. Si prenda il “caso Terri Schiavo”, per esempio. George ha dato il meglio di sé, decidendo una legge ad personam, spaccando le asfittiche logiche delle maggioranze e delle minoranze politiche, scendendo in campo in prima persona per salvare la giovane donna e parlando, in statement ufficiali, di «cultura della vita», la proverbiale frase coniata da Papa Giovanni Paolo II proprio durante un viaggio negli States. E ha aggiunto che, semmai, sbagliare in favore della vita umana è un prezzo che si paga volentieri. Ebbene, Jeb lo ha seguito, ci ha messo del suo, ha rincarato la dose e non ha affatto corso da gregario. Poi, quando la situazione si è fatta incandescente, ha cristallinamente affermato che non avrebbe mai violato la Costituzione federale mandando la forza pubblica a prelevare Terri in ospedale contro il verdetto dei giudici. Jeb non ha sbagliato in favore dell’illegalità, eppure non ha separato credo morale e azione politica, né confuso fede con amministrazione. A un uomo di governo, cristianamente, è chiesto questo, “solo” questo.

E poi il Papa…
In morte di Giovanni Paolo II, George (che il 4 giugno 2004 aveva insignito il pontefice della Medal of Freedom, la massima onorificenza Usa) ha fatto quello che nessun altro presidente americano ha mai fatto. Nel messaggio ufficiale di cordoglio del 2 aprile ha detto: «Siamo grati a Dio di averci inviato un uomo così», ha fatto esporre la bandiera a mezz’asta alla Casa Bianca e su tutti gli edifici federali e ha fatto capire subito che, protocollo o non protocollo, per nulla al mondo sarebbe mancato alle sue esequie pubbliche, là in San Pietro, culla, centro e cuore dei “papisti”. Niente male per un born-again “fondamentalista” protestante. Jeb, il fratello cattolico, osserva.

In missione per conto di Dio
Era il 1998 quando George vinse il secondo mandato da governatore del Texas, quello Stato delle contraddizioni come lo è tutta l’America vera che unisce kitsch e generosità, fede e distintivo, fai-da-te e spirito pubblico. George è un rampollo della Nuova Inghilterra yankee, ma qui, nel profondo Sud, nel Sudest del sole cocente e dei pionieri, si è accasato come uno nuovo John Wayne. Anche la sua fede religiosa è cosa texana, 100 per cento made in America. È tradizione che il governatore, all’inizio del mandato, assista alla funzione religiosa che si svolge in una chiesetta privata dirimpetta al palazzo del potere di Austin, la capitale. Quel giorno George sentì il celebrante parlare di leadership e del bisogno di una guida vera per il Paese. Si sentì chiamato. Che altro sarebbe, se no, quel The Jesus Day Proclamation del 17 marzo 2000, quando Bush jr., con un atto ufficiale della massima carica politica dello Stato, ribattezzò il 10 giugno “Giorno di Gesù” del Texas e fece pressione «per un suo riconoscimento adeguato».
La notte dell’Undici Settembre, quella in cui il presidente rivolse alla nazione un messaggio brevissimo e sapido che citava Isaia, era cominciata allora. Se di Bush jr. non si capisce questo, non si capisce nulla degli Usa. Cosa fece, infatti, George appena eletto di stretta misura alla Casa Bianca, durante i suoi primi “cento giorni” dimenticati? Reintrodusse il “Giorno nazionale della preghiera”, condannò recisamente l’aborto, pensò a come sgravare fiscalmente le iniziative sociali di organizzazioni religiose dando corpo concreto al «conservatorismo compassionevole» ideato da Marvin Olasky, tagliò i finanziamenti (34 milioni di dollari che da allora egli continua a tagliare ogni anno, reinvestendoli in aiuti a donne e a bambini poveri) al Fondo per la popolazione delle Nazioni Unite, quello che propaganda e attua sterilizzazioni e aborti forzati nel mondo, Cina in testa. Il suo trionfo elettorale nel 2004 nacque lì.

Un compito da svolgere
Ritiene di avere una missione, Bush jr., un compito per la vita che gli è stato assegnato dall’Alto. Del resto, il 3 aprile 1995, durante il primo mandato governatoriale, fece girare una circolare ai suoi Hard Working Staff Members, i collaboratori più stretti che sudano sette camice nel lavoro. Scrisse che Joseph O’Neill III, un vecchio amico dei giorni di Midland, di quella compagnia che non lo ha mai lasciato, gli aveva regalato una targa che lui si era affissa in ufficio e di cui voleva rendere tutti partecipi. Soprattutto per via del titolo, che citava l’inno 413 di Charles Wesley vissuto fra 1707 e 1788, A Charge to Keep I Have, “Ho un compito da svolgere”. A George piace in particolare il secondo verso, che, dopo aver detto che scopo della vita è glorificare Dio, specifica la natura del compito: «Servire l’oggi, compiere la mia vocazione. Che tutte le mie energie siano tese a fare la volontà del mio Maestro». Right Nation? Risponde il titolo, The Right Man, di un sapido libro del 2003 David Frum, già speech-writer del presidente e oggi neocon che collabora con il Foglio. A ripensarci, la storia di George ricorda qualcosa. Strani questi americani, strani questi cristiani. Roba che verrebbe da dire: “Ma allora alla Casa Bianca ci arriva pure uno come me”. Il che – come direbbe il Gandalf di Tolkien – è un pensiero consolante.

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