
Lo Cicero racconta il suo addio: «Partite dove non ti aspetti nulla e arriva tutto»
Italia-Irlanda sarà ricordata come la sua partita. La prima vittoria degli azzurri sulla nazionale gaelica rimarrà nella storia come l’ultima apparizione in Nazionale del Barone Andrea Lo Cicero, 103 caps con l’ItalRugby, record che fa di lui l’uomo più presente di sempre nella storia della palla ovale italiana. Lo aveva annunciato il giorno prima: «Ho 37 anni, mi sarebbe piaciuto giocare la mia quinta Rugby World Cup nel 2015. Ma ne avrò 39 quando la squadra volerà in Inghilterra. È arrivato il momento di lasciare spazio ai giovani, che non mancano». Le sue parole avevano reso certa una notizia già nell’aria, rendendo ulteriormente speciale la gara in programma sabato pomeriggio. E sebbene l’abbraccio dei 75mila dell’Olimpico fosse atteso, il Barone non ha retto: al 24esimo del secondo tempo le sue lacrime hanno bagnato la sua uscita dal campo, tra gli applausi di tutto lo stadio. Tempi.it lo ha intervistato, facendosi raccontare umori e sensazioni dopo una tale gara d’addio, e chiedendogli di spiegare come ha visto evolvere il movimento rugbistico italiano nel corso della sua lunga carriera.
Andrea, ti abbiamo visto in lacrime sabato nel salutare la Nazionale, vincendo una grande partita contro l’Irlanda in una cornice di pubblico unica. Ti aspettavi un addio così?
È quel genere di situazioni dove non ti aspetti nulla e arriva tutto. Eravamo contro una squadra fortissima, completa, in campo anche loro con un grande motivo, cioè l’addio di Brian O’Driscoll, al termine di una signora carriera. In più il giorno dopo sarebbe stato San Patrizio… Dalla nostra invece c’era lo stadio, stracolmo. Capisci che è una situazione tirata, dove parti 0-0: e alla fine siamo riusciti a giocare nel migliore dei modi la nostra partita, attaccando e difendendo bene. Questo è stato il regalo più bello: trovarsi puntuali su ogni punto di incontro e precisi su ogni pallone. Per me era l’ultima partita, quindi mi sono trovato a viverla senza stress e timori. Scendere in campo senza pensare all’importanza di questo match ha fatto davvero la differenza.
Il Sei Nazioni si è chiuso col successo più bello, quello contro l’Irlanda. Che voto vi date? In che cosa puoi dire di aver visto la squadra crescere e in che cosa invece l’Italia deve ancora imparare?
L’evoluzione in questo torneo c’è stata: si è vista una squadra che ha passato tanto tempo insieme, e che alla fine è riuscita ad assemblare al meglio tutte le pedine. Del resto parlano i risultati: abbiamo battuto le due squadre più forti del torneo, e la vittoria con l’Inghilterra ci è sfuggita di poco, per altro con un arbitraggio che a noi non ha concesso nulla, mentre a loro ha accordato tanto. Ogni anno si fa un passo in più: il lavoro che lo staff tecnico sta facendo è ottimo e inizia a dare i suoi frutti. Saremmo dei caproni se non fossimo riusciti a crescere un po’ anche quest’anno.
Per altro il torneo è stato strano, con quella vittoria iniziale contro la Francia e poi un calo nelle partite successive.
In tanti dite che ci sarebbe stato un calo dopo la vittoria con la Francia in apertura, io però non sono d’accordo: non è un calo, ma il sapersi adattare alle situazioni. Per di più abbiamo spesso giocato con arbitraggi che non ci hanno mai regalato nulla, e spesso in situazioni che non ci permettevano di esprimerci. Se nel momento migliore in cui stiamo attaccando prendiamo una meta, come accaduto col Galles e con la Scozia, capisci che basta poco per fare la differenza in negativo e in positivo nel corso di un match.
Hai iniziato a giocare a rugby negli anni Novanta, mentre in Nazionale ci sei dal 1999. Come hai visto cambiare in questi anni questo sport in Italia?
È diventato uno sport nazionale, non è più un secondo sport. Viene visto, seguito e apprezzato da tutti. Inevitabilmente ti trovi ad affrontarti con un pubblico che vuole vedere uno spettacolo sempre più bello.
Un passo avanti grosso è stato adottare come nuovo stadio l’Olimpico, sempre pieno in questi due anni di rugby.
Lo riempiamo bene. E la cosa singolare è che il calcio non ci riesce più. Sono appassionato di calcio anche io, però quando parlo con i miei amici calciatori glielo dico: “Ragazzi, non andate più di moda”.
Cosa manca ancora perché il rugby si affermi a pieno regime? Qualcuno dice che di questo sport si parla solo in occasione di Mondiali e Sei Nazioni, per poi dimenticarsene durante il resto dell’anno.
Dobbiamo cercare di essere più costanti. È normale che questo fattore manchi in un momento come questo, si avrà quando questi giocatori inizieranno ad avere la consapevolezza dell’emozione unica che ti fa vivere il rugby ogni giorno. In termini d’investimenti, è normale che il rugby riceva meno soldi di altri sport come il calcio, ma mi auguro che possa diventare in futuro un po’ più sostenuto. Sempre però con il rispetto del denaro, e non con lo sperpero.
Nel giro del rugby ti trovi da tantissimi anni. Cosa ti ha dato questo sport e cosa senti di avergli restituito?
A me ha dato tutto, dalla A alla Z. Meglio di così non si poteva avere, certo io ci ho messo tanto sacrificio, ma è maggiore ciò che ho ottenuto. Ora però capisco che devo affrontare una nuova vita e lasciare spazio ai più giovani.
A fine stagione lascerai anche il rugby giocato, hai già detto che rimarrai a disposizione per qualche tempo, e poi? Rimarrai ancora all’interno di questo sport o farai altro? È sempre la fase più critica per un giocatore re-inventarsi dopo l’attività sportiva.
Esatto. Io cercherò di fare ciò che mi sarà proposto: mi piacerebbe rimanere nel campo, ma se dovesse essermi proposto altro valuterò. Non so neanche dirti se allenerò o meno: sono pronto a fare qualunque cosa, pur di lavorare.
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