
Lo chiamavano Lotavecchio

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Lotavecchio era una crasi perfetta. A Claudio Lotito (Roma, 1957), presidente della Lazio, nonché proprietario (in società con Marco Mezzaroma) della Salernitana, la cultura greco-latina è sempre piaciuta. Infatti non ha mai smesso di rivendicare, attraverso dotte citazioni, i suoi studi classici. Divenne famoso, fin dalle sue prime interviste, perché, dopo le partite, mentre i suoi colleghi non andavano oltre a ripartenze, tattiche e critiche all’arbitro, lui, pur occupandosi degli stessi argomenti, citava scrittori, proverbi, detti latini. L’altra parte della crasi è Carlo Tavecchio (classe 1943), ragioniere brianzolo, democristiano dop e in questa veste sindaco di Ponte Lambro, un paese tra i due rami del lago di Como, per un ventennio (1976-1995), presidente della Federazione italiana Giuoco Calcio.
Se un tempo si diceva crasi, adesso si dice ticket. Lotito e Tavecchio sono stati un ticket dal 2014 a qualche mese fa, poi qualcosa è cambiato e i due non sono più sodali come prima. Nemici non si può dire, ma sicuramente non esiste più lo stesso rapporto dei tempi dell’elezione federale del 2014. Lotito & Tavecchio sono stati (e sono ancora, malgrado la fine del ticket) gli uomini forti del calcio italiano del dopo 2006. Un successo straordinario se si pensa che entrambi sono partiti da posizioni periferiche, senza la benedizione delle grandi società di calcio del Nord, senza un grande passato. I due sono molto simili perché hanno macinato posizioni su posizioni fino a scalare il Palazzo. Non solo in senso metaforico. Nello stabile della Federcalcio, in via Allegri a Roma, Lotavecchio occupava due uffici sullo stesso piano, quello nobile, il quinto.
Anno esaltante, il 2014, ma anche difficile. Dopo una contrastatissima elezione, Tavecchio eredita una Federcalcio disastrata. La popolarità della Nazionale è ai minimi storici dopo due eliminazioni consecutive nel primo turno dei Mondiali. Nell’umidità vaporosa di Natal, in Brasile, si è liquefatta tutta l’Italia del pallone. Dopo la sconfitta subita dal mediocre Uruguay del “morsicatore” Suarez, sia il commissario tecnico, Cesare Prandelli, che il presidente federale, Giancarlo Abete, rassegnano le dimissioni. Alle elezioni si presentano Demetrio Albertini, ex grande centrocampista del Milan e della Nazionale, e Carlo Tavecchio, vicepresidente vicario della Figc e presidente della Lega Dilettanti. Uno famoso ai più, l’altro, a parte negli ambienti politici del calcio, praticamente sconosciuto. Tra i suoi grandi elettori c’è Lotito.
Il presidente della Lazio non solo contribuisce a farlo eleggere, non solo interpreta il ruolo dell’eminenza grigia, del primo consigliere della corona, ma si ritaglia pure un posto da terapista, una specie di Sergio Castellitto da In treatment. Lotito, imprenditore con vari interessi ma il core business nel “ramo pulizie” (copyright Checco Zalone), nato a Roma ma con famiglia originaria di una frazione di Amatrice, quando Tavecchio finisce sbattuto come mostro in prima pagina per le sue gaffe (una parola è poca e due sono troppe, la lezione imparata nel tempo), viene già da dieci anni di presidenza della Lazio e ne ha passate di ben peggiori. E, a differenza del suo sodale, sa bucare il video e non ha paura di affrontare nessuno, neanche una fiction: ha fatto l’attore nei Cesaroni e nell’Allenatore nel pallone 2, partecipa a talk show. È un tipo tosto.
Un miracolo e molti strafalcioni
Lotito è entrato in guerra con gli ultrà – e a cicli anche con il resto dei tifosi –della Lazio fin dai suoi primi passi come presidente. Al di là di tutte le critiche che gli si possono rivolgere, ha fatto qualcosa che in Italia hanno rischiato in pochi, anzi, praticamente nessuno: ha sfidato la curva. Appena arrivato ha cancellato biglietti omaggio, contributi per i viaggi, regalie assortite. Per questo deve vivere sotto scorta. Ma il miracolo vero, quello da processo di beatificazione, è stato salvare la Lazio dal tracollo finanziario. Quando diviene presidente afferma: «Ho preso la Lazio al suo funerale e l’ho portata a un coma irreversibile, ora tento di farlo diventare reversibile». L’impresa è quella di ottenere dal fisco la spalmatura dei 140 milioni di euro di debito in 23 anni. L’unica iniziativa in cui i tifosi lo hanno appoggiato. Famoso e contestato il commento dell’allora premier Berlusconi: «La Lazio è stata salvata per questioni di ordine pubblico». Sia come sia, Lotito, dal suo quartier generale, Villa San Sebastiano, sull’Appia Antica, gestisce da uomo solo al comando un club con i conti a posto e i risultati più che soddisfacenti. Questo è innegabile. A chi lo accusa di fare i suoi interessi risponde: «Ero già ricco prima di prendere la Lazio».
Così, sistemata la Lazio a sua immagine e somiglianza, è partito alla conquista del calcio italiano, grazie all’alleanza strategica con Adriano Galliani orfano dell’amico Antonio Giraudo, stritolato dalle intercettazioni dell’anno domini 2006. Insieme hanno governato prima la Lega, poi hanno imposto in Federcalcio Tavecchio, ruspante ex dirigente bancario che ha cominciato la sua carriera nel calcio come fondatore della Polisportiva Ponte Lambro, anno 1974. Tavecchio, da allora, è sempre stato nell’ambiente, diventando presidente dei Dilettanti nel 1999. Fuori dal giro anche da presidente vicario della Federcalcio di cui diventa il capo, ma secondo tutti non il padrone, quel giorno di agosto.
Subito dopo saltano fuori le sue gaffe, soprattutto quella, pronunciata il 25 luglio precedente, sui giocatori extracomunitari: «L’Inghilterra individua i soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare. Invece noi in Italia diciamo che Optì Pobà è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così». Parole che fanno il giro del mondo. Tavecchio finisce nel mirino di Fifa, Uefa, governo (Renzi lo bacchetta), organizzazioni no profit. Qualche mese dopo, a Report, parlando delle donne gli scappa: «Finora si riteneva che la donna fosse un soggetto handicappato rispetto al maschio sull’espressione atletica. Invece abbiamo riscontrato che sono molto simili». Più che razzismo o misoginia, probabilmente si tratta di carenze sintattiche.
Insomma Tavecchio non è un fine dicitore e ha anche qualche problema con l’album delle figurine. Dopo la finale di Champions 2016, a Milano, impressionato da Carrasco dell’Atletico Madrid, a chi gli dice: «E ce lo troveremo di fronte agli Europei», risponde sconcertato: «Ma perché, non è spagnolo?». Di origine, ma di nazionalità è belga e il Belgio è il primo avversario dell’Italia. Però è un uomo sensibile e quindi torniamo al lettino di Lotito. Tavecchio pensa di mollare: «Basta, me ne vado, alla mia età devo stare qui a farmi insultare?». Lotito-Castellitto lo rincuora: «Ma no, tieni duro, tranquillo, dieci giorni e passa tutto».
L’inversione dei ruoli
Tavecchio resiste e infatti è ancora qui, come Lotito, che, però, saldo con la Lazio, ora ha difficoltà a riconfermarsi come uomo forte del calcio italiano. Forse perché si è spinto troppo in là. Va bene occupare l’ufficio di Beretta al quinto piano della Federcalcio, tanto il presidente della Lega non ci viene mai, ma il suo presenzialismo azzurro provoca qualche malumore. Nei primi anni di Tavecchio accompagna la Nazionale in trasferta con la felpa “Italia”, specie di consigliere ombra.
Tavecchio, però, comincia a emanciparsi. Sta più attento quando parla, mentre Lotito inciampa nella telefonata registrata a tradimento dal direttore sportivo dell’Ischia Isolaverde Giuseppe Iodice. Lotito sostiene che la presenza in serie A di piccoli club – cita Carpi o Frosinone – è deleteria per il calcio. Insomma, poco decoubertiniana ma si potrebbe discuterne. Però, in questo paese di olimpici della domenica, l’indignazione è travolgente.
Intanto il presidente federale azzecca una serie di scelte, da Michele Uva direttore generale ad Antonio Conte ct della Nazionale. Dopo dieci anni di prodotto esterno lordo azzurro con il segno meno, “Votantonio” riporta l’entusiasmo fuori e dentro il club Italia. Il nuovo ticket di Tavecchio, come dice Andrea Agnelli, è con Uva, nome su cui si concentra la stima generale. La Federcalcio è ben amministrata, l’organizzazione è solida. Tavecchio punta su cavalli vincenti: è un alleato della prima ora dello sloveno Aleksander Ceferin che diventa il nuovo presidente dell’Uefa, con Uva che entra nel comitato esecutivo, mentre Evelina Christillin occupa un posto in quello della Fifa. I tempi in cui le due più importanti organizzazioni mondiali del calcio processavano Tavecchio sono preistoria. Ceferin loda l’Italia, il presidente della Fifa, Gianni Infantino, si associa. Infine il presidente incassa anche il voto della Grande Nemica interna, la Juventus. Agnelli, fiero oppositore del ragioniere di Ponte Lambro nel 2014, lo appoggia senza riserve alle recenti elezioni del 2017.
«Non mi scarica nessuno»
La crasi Lotavecchio è finita, Tavecchio si è disfatto del lettino e ha sfrattato Lotito dal piano nobile di via Allegri. Lassù, ora, a scanso di equivoci, hanno l’ufficio solo lui e Uva. Alla prima trasferta azzurra, dopo le elezioni del 2017, Lotito non è sull’aereo della squadra, come era avvenuto nel 2014. Insomma il presidente delle gaffe sta cercando di smarcarsi dall’ingombrante presenza del presidente della Lazio.
Questo, però, è tutt’altro che alla deriva. La politica, di Lega e federale, è sempre il suo grande gioco e ora che l’asse con Galliani si è spezzato per la fine dell’avventura berlusconiana al Milan, Lotito traccia nuove alleanze, si fa nuovi amici. Tra questi Marco Fassone, il nuovo amministratore delegato del Milan, proprio l’uomo che ha sostituito Galliani nel palazzo rossonero al Portello. Non è riuscito a piazzare uomini di suo gradimento alle due leghe, di A e di B, ma è tutt’altro che sconfitto. E la battaglia è ancora in corso. A chi gli ha paventato l’inizio di una parabola discendente, ha replicato: «Non mi scarica nessuno, quello che conta sono i risultati». La crasi è finita, ma di Tavecchio e Lotito sentiremo ancora parlare.
Foto Ansa
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