L’invenzione degli hospitalia, cattedrali per corpi e anime

Di Rodolfo Casadei
16 Febbraio 2021
Doveva arrivare il “buio” Medioevo perché qualcuno si prendesse la briga di curare i malati. Non più reietti, ma uomini con un destino
Interno dell'Hospices di Beaune in Francia (secolo XV)

In un recente articolo apparso sulla rivista della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale il teologo morale Giuseppe Angelini ha scritto che «un’appariscente conferma della cancellazione della competenza morale dai codici riconosciuti della vita comune troviamo, in tempo di pandemia, nella scelta di assegnare il compito di consulenza al governo a un comitato “tecnico scientifico”; è esclusa ogni competenza relativa al costume, alla forma morale del vivere comune, o addirittura alla forma religiosa. Il prezzo di una tale esclusione è quello di ignorare del tutto, a livello di decisioni politiche, i costi delle decisioni in termini di qualità umana della vita comune». 

Copertina di All'origine della cura, libro di Luciano Sabolla

C’è stato un tempo nel quale la salute del corpo era considerata inseparabile dalla salute dell’anima, e la cura e l’assistenza ai malati erano la conseguenza della fede nella Rivelazione delle verità eterne riguardanti l’uomo, i suoi doveri e il suo destino. E quello è stato precisamente il tempo in cui in tutta Europa sono sorti gli ospedali, le farmacie e le opere socio-sanitarie per i più svantaggiati: si tratta dell’epoca che va dall’Alto Medioevo al Rinascimento, l’epoca della cristianità. Ce lo ricorda un ricchissimo volume apparso due mesi fa per celebrare il 20esimo anniversario del Banco farmaceutico, benemerita fondazione che recupera medicinali da donatori e aziende per metterli a disposizione dei bisognosi in Italia e all’estero. All’origine della cura. Pauper Christi. Assistenza e sanità tra Medioevo ed Età moderna è una carrellata attraverso undici secoli che vedono svilupparsi assistenza e sanità per iniziativa di monaci, ordini cavallereschi, confraternite laiche, ordini religiosi, papi, comuni e signorie. 

Il più antico ospedale europeo per pazienti curabili fu fondato nel 381 a Roma dalla matrona vedova Fabiola per adempiere alle opere di misericordia insegnate dal Vangelo. Xenodochia è il nome degli ostelli dove i monaci ospitavano i pellegrini poveri, e che comprendevano un’infermeria per quelli malati. La regola benedettina mirava all’autosufficienza conventuale, e così «per accudire i monaci infermi si sviluppò la medicina monastica grazie alle conoscenze provenienti dagli antichi testi, attraverso (…) la coltivazione tra le mura abbaziali delle varie specie botaniche provviste di effetti salutari, al riparo da incursioni e vandalismi. (…) I monaci risultarono per quattro secoli i massimi esperti delle proprietà di erbe e piante medicinali». 

Confessioni e offerte

Le farmacie sono nate nei monasteri, che offrivano gratuitamente i loro balsami ed elisir ai bisognosi di cure che si rivolgevano a loro. Fino a quando un motu proprio di Sisto IV nel 1456 mise fine alle attività farmaceutiche dei monaci, riservandole alle corporazioni dei farmacisti. In città gli ospizi per ogni genere di bisognoso inizialmente si chiamavano scholae, organizzati dai vescovi e affidati ai monaci agostiniani. Carlo Magno (VIII-IX secolo) promulgò per decreto l’obbligo di istituire un ospedale al fianco di ogni cattedrale. E il primo brefotrofio di cui si abbia notizia lo creò a Milano l’arciprete Dateo nel 787. Gli ospedali ebbero tutti giurisdizione ecclesiastica e fecero parte dell’ordinamento della Chiesa fino all’età moderna.

Tutti questi luoghi li si cominciò a chiamare hospitalia perché questo facevano: ospitavano bisognosi di ogni specie, malati e non malati. Non erano nosocomi specializzati: non promettevano la guarigione, ma di prendersi cura del malato a prescindere da quello che sarebbe stato il suo destino, cioè la remissione della patologia o la morte. Si curava prima di tutto la salvezza eterna del bisognoso, offrendogli i sacramenti. «Per questo», si legge a pagina 56, «la facciata dell’ospedale medievale era simile a quella di una chiesa gotica – accesso ad uno spazio sacro – e l’ingresso al nosocomio spesso consisteva in una scalinata di nove gradini, in riferimento alla Santissima Trinità. Perciò l’assistito non era visto come fallito, ma come pauper Christi, il povero di Cristo». Anche perché si pensava che ci fosse un legame stretto fra peccato e malattie, e che curando il primo si potessero curare anche le seconde. Un commento di Maria Pia Alberzoni nel libro rievoca una costituzione del Concilio Lateranense IV: «Ai medici dei corpi (ordiniamo, ndr) che, quando sono chiamati presso gli infirmi, prima di tutto li ammoniscano e li inducano a chiamare i medici delle anime, cosicché dopo aver provveduto alla loro salute spirituale si applichino con maggiore efficacia i rimedi per il corpo: cessando infatti la causa, cessa anche l’effetto». 

La riforma ospedaliera quattrocentesca, che crea gli ospedali centralizzati, medicalizzati e specializzati che sono stati il prototipo di quelli odierni, è stata spesso presentata come una svolta razionalista che ha messo fine alla visione della cura a metà fra il mistico e il superstizioso che sarebbe stata caratteristica del Medioevo. Sta di fatto che a volere quella svolta furono non solo esponenti del potere civile come Francesco Sforza a Milano, ma ordini religiosi come quello dei domenicani e i papi da Niccolò V in avanti. I papi aiutarono in ogni modo la razionalizzazione sanitaria garantendo la Benedizione apostolica in articulo mortis a chi si faceva ricoverare nei nuovi ospedali maggiori e soprattutto indicendo giubilei speciali a livello diocesano nei quali per lucrare le indulgenze occorreva fare donazioni per l’edificazione dei nosocomi. Famosa a Milano è la festa del perdono, che si celebrò per vent’anni fra il 1460 e il 1479 il 25 marzo, festa dell’Annunciazione, sulla base della Bolla di indulgenza plenaria di Pio II: chi visitava la chiesa dell’Ospedale Maggiore in costruzione, si confessava e faceva un’offerta per i lavori, otteneva il condono della pena temporale per i peccati confessati. 

Ricoveri di bellezza

Pochi sanno che la festa fu resa perpetua da Pio IV nel 1560: ancora oggi, chi visita una delle tre chiese della Fondazione Ca’ Granda Policlino di Milano il 25 marzo negli anni dispari, lucra l’indulgenza plenaria. E soprattutto «nei nuovi nosocomi rimase l’obbligo per il paziente della confessione al momento del ricovero, per la persistente convinzione che la salute dell’anima andasse curata di pari passo alla salute del corpo. Quotidianamente veniva celebrata la Santa Messa, su un altare ubicato all’interno della sala di degenza o nella contigua cappella ospedaliera, munita di finestroni che consentivano ai degenti di seguirla dal proprio letto. La soluzione consistette nel collocare l’altare sopraelevato da alcuni gradini, sotto ad un luminoso tiburio all’incrocio dei bracci dell’infermeria a crociera». 

All’origine della cura è arricchito dalle immagini di quadri, affreschi, sculture e architetture di pregio che nei secoli hanno fatto dei grandi ospedali e degli ostelli delle confraternite luoghi ospitali anche alla bellezza artistica. Le opere celebravano le figure di culto che davano il nome agli ospedali (san Matteo della Pietà a Pavia, santa Maria Nova a Firenze, le Annunziate a Napoli, eccetera) o a cui erano intitolate le confraternite (vedi l’Incoronazione di spine di Gesù opera di Bernardino Luini, commissionata dalla confraternita della Santa Corona di Cristo a Milano). 

L’autore del libro, Luciano Sabolla, è stato per 35 anni tisio-pneumologo presso l’ospedale milanese Villa Marelli, dove ha sviluppato una grande competenza nella diagnosi differenziale mediante esami strumentali. Dal 2002 è volontario del Banco farmaceutico.

@RodolfoCasadei

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