L’inferno non è vuoto

Di Laura Borselli
28 Settembre 2006
Continua il massacro dei musulmani africani nel Darfur, complice il silenzio del mondo arabo. Mentre il palazzo di vetro temporeggia. Il regime islamista protetto da Cina e Russia. E dall'indifferenza del mondo

C’è una forza di pace targata Onu pronta a partire per la regione sudanese del Darfur, per garantire la fine delle violenze che da tre anni colpiscono la popolazione civile inerme con la complicità del governo centrale. Allo stanziamento di quei ventimila caschi blu si oppongono, guarda un po’, proprio le autorità sudanesi, che preferiscono la presenza dei settemila soldati dell’Unione africana. Ossia una forza, per sua stessa ammissione, insufficiente e mal equipaggiata, il cui mandato, in scadenza il 30 settembre, è stato esteso in extremis fino alla fine dell’anno. Con la promessa di un rafforzamento delle truppe ad opera degli altri stati africani e di finanziamenti dalla Lega Araba, il Sudan ha ottenuto di rimandare ancora una volta l’ingresso dei caschi blu sul proprio territorio. Il problema è solo posposto, tuttavia, per una regione, grande quanto la Francia, che ha già pagato un tributo altissimo nell’ennesimo conflitto che si avvita nello stato africano. Almeno duecentocinquantamila i morti e due milioni gli sfollati. L’Onu esprime preoccupazione per quella che definisce la «peggiore crisi umanitaria in atto», salvo poi vincolare lo stanziamento dei suoi soldati al placet del governo di Khartoum. L’amministrazione Bush parla esplicitamente di genocidio. Cina e Russia al Consiglio di sicurezza evitano qualunque mossa che possa irritare il governo sudanese. Sullo sfondo il prolungato silenzio del mondo arabo di fronte allo sterminio sistematico di migliaia di musulmani.
La casella giusta per il conflitto che insanguina il Darfur è quella dei “conflitti dimenticati”. Un’etichetta fastidiosa per la coscienza come i lavavetri al semaforo e che in Africa non è certo una rarità.
Il calvario della popolazione della regione, quasi totalmente musulmana ma di etnia nera, inizia nel 2003, quando gruppi di ribelli sfidano il governo per protestare contro la discriminazione di cui sono vittima rispetto agli arabi, per chiedere il rispetto delle loro terre e maggiori aiuti allo sviluppo. Il timore che la ribellione del Darfur possa fondersi con quella che oppone il nord al sud del paese (una guerra civile ventennale che si concluderà nel 2005 lasciandosi alle spalle un milione e mezzo di morti) spinge al gioco pesante quel governo che ancora siede nella Commissione Onu per i diritti umani (solo nel 2005, a seguito della riforma dello screditato Consiglio, il Sudan non avrà la faccia di ripresentarsi).

Lo sterminio di civili
La discriminazione verso le popolazioni musulmane che hanno la sola colpa di non essere arabizzate si intensifica e diventa vero e proprio sterminio di civili. Milioni di persone lasciano terrorizzate le proprie case per sfuggire alla violenza cieca e sistematica dei janjaweed (letteralmente “diavoli a cavallo”), milizie di etnia arabizzata, armate come i più sofisticati eserciti e crudeli come i più tribali assassini. Le testimonianze dei sopravvissuti ai massacri sono raccapriccianti. Il copione è sempre lo stesso. Prima i bombardamenti del governo su presunti obiettivi sensibili e poi i raid dei diavoli a cavallo: vecchi oltraggiati, bambini uccisi contro i muri delle case, donne deflorate con lunghi coltelli o stuprate ripetutamente davanti alle proprie famiglie. Il governo centrale, da più parti accusato esplicitamente anche di armare le milizie, è quanto meno riconosciuto colpevole dalla comunità internazionale di non fare abbastanza per fermare le violenze. Né lo stanziamento delle truppe dell’Unione africana iniziato nel 2004, né l’accordo di pace firmato nel maggio scorso tra governo e una parte dei ribelli sono stati sufficienti a far tornare la situazione alla normalità. Secondo un recente rapporto di Human rights watch (Hrw) il governo sudanese continua ancora oggi a bombardare il Darfur.
Dopo la recente estensione del mandato delle truppe dell’Unione africana il Consiglio di sicurezza resta inchiodato sulla risoluzione 1706 che subordina l’arrivo dei caschi blu al consenso del governo sudanese, che si oppone paventando il rischio di «un nuovo colonialismo» e gridando al «complotto sionista». La settimana scorsa al Palazzo di vetro il presidente statunitense George Bush ha denunciato la passività delle Nazioni unite. A fargli eco c’è anche la stampa di simpatie non certo conservatrici, come il New Republic, bibbia del pensiero liberal, il New York Times e l’Herald Tribune. Il caso del Darfur comincia a fare breccia nell’opinione pubblica, americana e non solo. Il 17 settembre decine di manifestazioni si sono svolte in tutto il mondo e per fermare le atrocità e soprattutto sollecitare un’azione dell’Onu. Alla causa ha prestato il proprio volto anche George Clooney, intervenuto alle Nazioni unite. Il Darfur sembra uscire dall’ombra. Ma questo basta?
La chiave del complicato rebus potrebbe essere la Cina. Insieme a Mosca, Pechino si è astenuta nel voto della risoluzione 1706. Un segnale chiaro di sostengo al governo sudanese, che guarda caso è un importantissimo fornitore di petrolio per il celeste impero. Pechino ha acquistato nel 2005 il 50 per cento di tutto il petrolio esportato da Khartoum. Fino ad ora Pechino ha usato il suo potere al Palazzo di vetro per proteggere regimi come lo Zimbawe, l’Eritrea, il Myanmar e lo stesso Sudan. Ultimamente è in prima linea nell’opposizione alle sanzioni contro l’Iran nucleare degli ayatollah. Dall’altra parte partecipa con mille uomini alla missione dell’Onu in Libano. La Cina della crescita economica record, insommma, si muove per assumere sempre maggior peso nella politica mondiale. E lo fa, evidentemente, a modo suo. Il disinvolto cinismo con cui sminuisce i massacri nel Darfur e conclude accordi economici col Sudan non fa certo ben sperare. È per questo paese che Romano Prodi ha chiesto con insistenza la revoca dell’embargo di armi da parte dell’Europa.

Articoli correlati

0 commenti

Non ci sono ancora commenti.