Libia, se cade Gheddafi tutti i governi alzeranno bandiera bianca

Di Rodolfo Casadei
22 Febbraio 2011
E' la prova decisiva: Muammar Gheddafi, leader della Libia, è un esperto in sopravvivenza politica grazie ai proventi del petrolio e alla repressione. Se la piazza lo fa cadere, sarà il segnale che nessuno può fermare le proteste in nessun paese. Resta però la domanda: dopo verrà la guerra civile o nuovi, più soddisfacenti equilibri politici e sociali?

La sanguinosa piega che le proteste contro il regime hanno preso in Libia prelude alla prova decisiva per quel che riguarda il destino dei moti antigovernativi che dal dicembre scorso attraversano il mondo arabo. A Tripoli e a Bengasi si decide se i moti sono destinati a sfociare nella guerra civile, se i vecchi regimi possono ancora utilizzare con successo la carta della repressione spietata e se la comunità internazionale è disposta a coinvolgersi veramente negli eventi dalla parte dei militanti antigovernativi.

La Libia rappresenta il test decisivo dei dilemmi suddetti per una serie di ragioni. Il paese di Muammar Gheddafi è autosufficiente dal punto di vista economico (nel solo 2008 ha incassato 136 miliardi di dollari dalla rendita petrolifera) e politico, pertanto è immune alle pressioni occidentali che hanno avuto un ruolo nel galvanizzare le piazze e nel demoralizzare i detentori del potere in Tunisia ed Egitto.

In passato ha fatto ricorso moltissime volte alla repressione nei confronti di oppositori animati da motivazioni islamiste o regionaliste o claniche: nel 1996 Gheddafi ha ordinato il massacro di 1.200 detenuti del carcere di Abu Salim, ed è riuscito a mantenerlo segreto per anni; la Libia non ha una tradizione nazionale, le lealtà politiche decisive sono quelle tribali: solo un leader molto forte o molto illuminato può mantenere pacificato il paese.

Il discorso televisivo di Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi che incarna una visione moderata (per gli standard libici) e riformista della politica, è un monito estremo agli oppositori ma anche alla comunità internazionale. Agli uni e agli altri fa intendere che la transizione dalle autocrazie a equilibri che ancora non si vedono, e che ottimisticamente manifestanti e osservatori stranieri immaginano democratici, non sarà, leninianamente parlando, un pranzo di gala. E che la “fitna”, l’incubo storico della civiltà islamica dai tempi della guerra civile che seguì all’uccisione di Othman, il quarto califfo, è sempre in agguato.

Mentre tutte le analisi e le previsioni rischiano di infrangersi nella continua accelerazione degli avvenimenti e nell’imprevedibilità degli stessi che ogni giorno di più si manifesta – vera lezione sulla natura evenemenziale della storia e sui limiti delle prognosi degli “esperti” – una profezia condizionata la si può rischiare: se il regime del più grande specialista arabo in sopravvivenza politica, cioè Muammar Gheddafi, cadrà per le pressioni della piazza e nonostante la massiccia reazione all’insegna della repressione, tutti gli altri governi non potranno fare altro che alzare bandiera bianca. Quel che resta non pronosticabile è cosa verrà dopo: la guerra civile o nuovi, più soddisfacenti equilibri politici e sociali?

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