Libia, Micalessin: «Ribelli allo sbando, ormai è una guerra tribale»

Di Leone Grotti
14 Luglio 2011
Esce un rapporto di Human Rights Watch che denuncia abusi dei ribelli libici in quattro città liberate ai danni di civili. Gian Micalessin, che ha conosciuto i ribelli a Bengasi, non è stupito: «Sono senza controllo, non hanno disciplina né un leader, non rispondono a nessuno. La guerra è diventata una lotta tribale: i ribelli attaccano le città legate a tribù vicine a Gheddafi»

Ieri un rapporto di Human Rights Watch (Hrw) ha riportato gli abusi commessi dai ribelli libici in quattro città, dopo che con l’aiuto della Nato erano riusciti a cacciare i lealisti del rais Muammar Gheddafi. Secondo la Ong, avrebbero bruciato case, saccheggiato ospedali e negozi, malmenato e sparato a civili che hanno appoggiato il colonnello. «Non mi stupisce per niente» dichiara a Tempi.it Gian Micalessin, inviato del Giornale e autore del reportage “I ragazzi della rivoluzione”, girato a Bengasi, la roccaforte dei ribelli. «Sono senza controllo, non hanno né disciplina né leader. Non rispondono a nessuna entità politica, quindi è molto probabile che si siano comportati come riferiscono i testimoni oculari di Hrw».

La reputazione dei ribelli continua a peggiorare: prima hanno mostrato inesistenti fosse comuni scavate dai lealisti di Gheddafi, poi è stato il caso degli stupri di massa da parte degli uomini del rais smentiti da Amnesty international, adesso le rivelazioni di Hrw sulle violenze ai danni dei civili, che la Nato e i ribelli dovrebbero invece proteggere.
La situazione a quattro mesi dall’inizio della guerra è davvero paradossale. Tutto è cominciato con una no-fly zone per difendere i civili da Gheddafi e adesso escono altri rapporti su arresti arbitrari e maltrattamenti di persone da parte dei ribelli. Qualcuno dice che si vendicano di chi aveva rapporti con il regime, ma tutti collaboravano. Anche i capi dei ribelli sono ex quadri del governo di Gheddafi. La verità è che la guerra sta diventando, come si temeva e come si voleva evitare, una lotta tribale, con i ribelli che attaccano a sud di Tripoli le città legate alle tribù vicine a Gheddafi. Il colonnello è ormai un criminale internazionale ma anche chi lo accusa si sta macchiando di delitti gravi.

Nei giorni scorsi si sono rincorse notizie e smentite su presunte trattative con gli uomini di Gheddafi. Che cosa sta succedendo?

Il ministro della Difesa francese ha detto pochi giorni fa che con l’uso della forza non si va da nessuna parte e che bisogna trattare con Gheddafi. Questo, dopo che hanno imposto la no-fly zone per poi trasformarla in bombardamenti a tappeto per cercare di eliminare il rais. Negli stessi giorni, su un giornale algerino è uscita un’intervista al figlio Saif al-Islam, dove dice che i francesi si sono addirittura sostituiti ai ribelli nelle trattative con Gheddafi, che adesso potrebbe anche restare in Libia. Eppure, fino a ieri era Belzebù, un criminale internazionale che i francesi hanno cercato in ogni modo di uccidere.

Gli scontri tra ribelli e lealisti vanno avanti. Qual è la situazione sul campo?

Di assoluto stallo. Senza la Nato, i ribelli sarebbero stati sconfitti da mesi. Non possono in alcun modo arrivare a Tripoli e rovesciare Gheddafi. Il colonnello ha ancora uomini, risorse e appoggi. L’Algeria, ad esempio, continua ad aiutare il rais.

Che speranze ci sono che le trattative vadano a buon fine e che la guerra finisca?
Qualcuna c’è. Gli americani si sono ritirati e non hanno alcuna intenzione di rientrare in guerra. La Nato ha dato dimostrazione di non valere nulla senza l’appoggio militare degli Usa. La Francia non vuole più spendere, perché ha già lasciato sul campo 180 milioni di euro. L’Italia non vede l’ora di sfilarsi dal conflitto: l’unico modo è trattare.

Lei ha conosciuto i ribelli a Bengasi, la notizia degli abusi ai danni dei civili la stupisce?
Assolutamente no. I ribelli sono senza controllo, non hanno disciplina né un leader. Non rispondono a un’entità politica, sono allo sbando ed è molto probabile che abbiano commesso quello di cui sono accusati. Atteggiamenti contrari alle regole della guerra.

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