
Libano verso le elezioni. Cambi di regole, partiti in campo e il flop del voto all'estero

Venerdì 27 aprile per la prima volta nella storia da quando il Libano è una repubblica indipendente (1943) i cittadini elettori residenti all’estero hanno potuto votare alle elezioni politiche parlamentari. In forza della legge approvata dal parlamento uscente nel giugno dello scorso anno, un milione di libanesi residenti all’estero sono diventati potenziali elettori. I loro voti saranno sommati a quelli delle circoscrizioni elettorali di origine, dove il voto è previsto per domenica 6 maggio. Poi dalle prossime elezioni i libanesi all’estero voteranno per 6 seggi parlamentari a loro riservati.
La novità però ha incontrato scarsissimo successo: su un milione circa di libanesi che vivono all’estero e hanno mantenuto la cittadinanza del paese di origine (si stima che la diaspora libanese ammonti a 12 milioni di persone, la maggior parte delle quali non parla più l’arabo), soltanto 82.900 si sono registrati per votare. Per loro sono stati allestiti 116 seggi elettorali presso consolati e ambasciate libanesi di 39 paesi. Il voto dei libanesi all’estero si svolge in due giornate diverse, a seconda del giorno festivo settimanale nei vari paesi. Nella giornata di venerdì hanno potuto votare i 12.611 elettori iscritti presso i registri consolari di sei paesi del Medio Oriente: Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Qatar e Oman. Domenica 29 aprile possono votare tutti i restanti iscritti, che vivono nei paesi dove vige la festività domenicale. Domenica 6 maggio sarà la volta dei residenti in patria, che torneranno a deporre le schede nell’urna dopo una lunga pausa: l’ultima elezione politica libanese infatti ha avuto luogo nel 2009, dopodiché la legislatura che doveva essere quadriennale è stata più volte prorogata a causa del clima di insicurezza indotto dalla guerra civile nella confinante Siria e dalle tensioni geopolitiche regionali.
Considerato che gli iscritti al voto in terra libanese sono solo 3 milioni e mezzo, gli espatriati avrebbero potuto esercitare un’influenza importante sugli equilibri del nuovo parlamento se si fossero iscritti in massa nei registri elettorali. Così però non è stato. Il quotidiano libanese L’Orient Le Jour ha cercato di capire le ragioni della bassa partecipazione, raccogliendo dichiarazioni come la seguente, rilasciata da una donna ingegnere civile che vive a Dubai: «Non vado a votare perché ne ho abbastanza di tutte le loro menzogne e sceneggiate. Volevo dare il mio voto a candidati qualificati, che abbiano competenze da mettere al servizio del paese. Ma ho scoperto che saranno sempre le stesse persone, egoiste e prive di spirito patriottico, che torneranno al potere. Volevo dare il mio voto a candidati della società civile, ma onestamente non ho sentito parlare di loro, non li conosco, sono stati soffocati dalla casta politica che torna al potere ogni volta. Non credo che questo scrutinio rappresenti un’opportunità per un cambiamento».
I cambiamenti per il momento riguardano le regole del gioco: la nuova legge, oltre a concedere il voto ai libanesi residenti all’estero, ha ridisegnato i confini delle circoscrizioni elettorali, che sono state ridotte a 15 da 26 che erano e rese più omogenee dal punto di vista della composizione religiosa. Inoltre il sistema elettorale è passato da maggioritario a proporzionale. Questi cambiamenti dovrebbero rispondere a due esigenze. La prima è che i candidati delle diverse appartenenze religiose siano scelti tendenzialmente da elettori della loro stessa confessione religiosa, mentre con le vecchie circoscrizioni i cristiani si lamentavano del fatto che molti dei loro rappresentanti erano scelti da elettori di altra religione. Non bisogna infatti mai dimenticare che, a prescindere dal pluralismo dei partiti, gli accordi di Ta’if che nel 1989 hanno tracciato la strada per la fine della quindicennale guerra civile libanese a sfondo religioso che per 16 anni (1975-1990) ha devastato il Libano, hanno stabilito che in parlamento devono sedere un uguale numero di deputati musulmani e cristiani (fra i musulmani vengono compresi anche i drusi). L’accordo precedente, risalente al 1943, assicurava una maggioranza ai cristiani in ragione di un rapporto di 6 a 5. Del vecchio accordo è stata conservata la distribuzione delle cariche fra le varie confessioni, con il capo dello Stato sempre cristiano maronita, il primo ministro musulmano sunnita, il presidente del Parlamento musulmano sciita, il vice presidente del Parlamento un greco ortodosso, il capo di Stato maggiore delle Forze armate un cristiano maronita, il capo di Stato maggiore dell’esercito un druso. Ma i poteri del capo dello Stato sono stati ridotti a vantaggio di quelli del primo ministro e del presidente del Parlamento.
La seconda esigenza che ha mosso la riforma della legge elettorale è stata quella di facilitare il rinnovamento del quadro politico con ingressi in parlamento dalle file della società civile: il sistema proporzionale dovrebbe avvantaggiare le nuove formazioni che si sono presentate per la prima volta alle urne, mentre il sistema maggioritario le penalizzava di fronte ai partiti dell’establishment. Saranno ben 77 i simboli di partito in gara in queste elezioni, anche se le forze principali restano i 6 partiti che si sono consolidati parte all’indomani della fine della guerra civile del 1975-1990 e parte all’indomani della cosiddetta Rivoluzione dei Cedri del 2005, la serie di proteste di piazza scatenate dall’assassinio del premier Rafic Hariri che si conclusero dopo il ritiro dal Libano del contingente militare siriano presente sul suo territorio da trent’anni. I sei partiti più importanti del Libano sono il Movimento Il Futuro (sunniti) di Saad Hariri, figlio dell’assassinato Rafic Hariri; il Movimento Patriottico Libero (cristiani) guidato dal ministro degli Esteri Gebran Bassil, genero del presidente della Repubblica Michel Aoun, il Movimento Amal (sciita) di Nabil Berri, presidente del Parlamento, Hezbollah (sciiti radicali) guidato dallo sceicco Hassan Nasrallah, le Forze Libanesi (cristiani) di Samir Geagea e il Partito Socialista Progressista (drusi) di Walid Jumblatt. Questi sei partiti sommati insieme occupano 85 dei 128 seggi del parlamento.
Molti osservatori dubitano che i partiti della società civile che si propongono come un’alternativa ai partiti centrati sull’identità confessionale (i sei sopra elencati) riusciranno, nonostante il sistema proporzionale, a entrare in parlamento. I costi della campagna elettorale sono infatti molto alti, e coloro che dispongono di ingenti risorse sono personalità storicamente legate ai sei partiti dell’establishment. Mediamente un minuto di trasmissione su un canale televisivo privato costa 6 mila dollari; un’intervista di un quarto d’ora su di una radio privata tocca i 3 mila dollari. Commenta Laury Haytayan, candidata della coalizione civica Kulluna Watani: «Chi può pagare 20 mila dollari di questi tempi per mezz’ora di trasmissione, a parte i partiti tradizionali che sono già conosciuti?».
Altra potenziale novità della tornata elettorale è l’alto numero di candidati donne: senza che la legge imponga quote femminili, risulta che le aspiranti parlamentari siano 111 su un totale di 976 candidature. Non è poco se si considera che alle elezioni precedenti le donne candidate erano solo 12, e ne furono elette 4.
Foto Ansa
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