L’Huffington Post arriverà davvero in Italia, portando il feudalesimo digitale

Di Chiara Sirianni
18 Febbraio 2012
Il gruppo editoriale l’Espresso farà da partner italiano all’Huffington Post Media Group, editando così anche da noi il blog fondato nel 2005 da Arianna Huffington, Kenneth Lerer e Jonah Peretti. L'editore potrebbe essere Riccardo Luna. Ma troverà Arianna centinaia di persone disposte a lavorare gratis per lei in Italia come in America?

È ufficiale: dopo mesi di trattative, Arianna Huffington sbarca in Italia. Sarà il gruppo editoriale l’Espresso il partner italiano dell’Huffington Post Media Group ad editare la versione nostrana del blog fondato nel 2005 dalla Huffington, Kenneth Lerer e Jonah Peretti. Costruita la società toccherà trovare un direttore e i ben informati scommettono sul nome di Riccardo Luna, che nel 2009 venne scelto da Condé Nast per l’edizione italiana di Wired, la rivista cult di nuove tecnologie. Si tratta solo di una voce, ma plausibile: Luna (che tra le altre cose è anche il promotore di Internet al Nobel per la pace) si è dimesso da Wired a giugno 2011.

Già a ottobre la presidente e fondatrice dell’Huffington Post è stata ospite d’onore allo Iab Forum di Milano, dove ha spiegato di poter contare su 30.000 collaboratori. Ma di che si tratta? Il blog nasce nel 2005, come aggregatore di notizie: spazia dalla politica all’intrattenimento, puntando molto sulla quantità di visite. Ad esempio, per la scelta dei titoli degli articoli, il sito utilizza un sistema per il quale ne vengono visualizzate due diverse versioni contemporaneamente, e dopo qualche minuto di sperimentazione, il software sceglie quello che ha attirato più visitatori (un metodo definito “diabolicamente brillante dal Nieman Journalism Lab).

L’Arianna-pensiero alla base di quello che è diventato un modello in grado di macinare 100 milioni di dollari di fatturato, è elementare: «La gente non vuole soltanto avere delle notizie: vuole condividerle, migliorarle e contribuire ad integrarle con altre informazioni». Il che si ottiene con un grosso volume di contenuti, in parte ripresi da altre testate (come fa, ad esempio, il Post.it di Luca Sofri) e altri prodotti autonomamente. I visitatori commentano e interagiscono con la redazione, che sfrutta al meglio le potenzialità dei social network. Esemplificando: un post su Sarah Palin è stato visualizzato da oltre 700.000 persone, condiviso 24.000 volte e ha generato 7.731 commenti. Il portale diventa un punto di riferimento durante la campagna per le elezioni presidenziali, e inizia ad espandersi oltre i confini nazionali, raggiungendo l’Europa. Nel corso del 2011, l’Huffington Post ha lanciato le sue prime versioni internazionali in Canada e Inghilterra. A ottobre, ha annunciato la nascita dell’edizione francese, in collaborazione con Le Monde, mentre a dicembre è stata la volta di quella spagnola, in collaborazione con El Pais.

Quando la Huffington, ex moglie di un senatore americano (repubblicano) e personaggio pubblico molto noto, fonda la testata assieme ai due soci, lancia le basi di un’azienda editoriale composta da un pugno di imprenditori, una ventina di giornalisti a comporre la redazione e centinaia di blogger che offrono gratuitamente il loro contributo per passione, in cambio di un po’ di visibilità. Sono loro lo zoccolo duro che rende la macchina concorrenziale. È un successo: nel 2011 viene superato il numero di utenti unici del New York Times. «Sei anni per sconvolgere 100 anni di storia» ha commentato Brad Garlinghouse, uno dei contributor del network.

Le grane sono arrivate qualche mese dopo, quando una delle più importanti aziende editoriali on-line del pianeta, America On Line, ha acquistato la piattaforma per 315 milioni di dollari. Il genio della rete ha vestito i panni della donna d’affari, e molti si sono interrogati sull’utilità dello sconvolgere la storia senza essere pagati. Subito dopo l’acquisizione la Huffington aveva inviato un’email ai suoi collaboratori: «I vostri post avranno un impatto ancora maggiore sulla conversazione globale e locale. Questo è l’unico vero cambiamento che noterete: più persone che leggono quello che scrivete». Loro l’hanno accusata di averli sfruttati e di aver guadagnato sulla loro pelle. Molte penne sono emigrate verso lidi migliori: in particolare Michael Arrington, il fondatore del seguitissimo blog tecnologico Techcrunch, anch’esso acquistato da Aol lo scorso anno. Le ragioni dello strappo sembrerebbero legate a conflitti d’interesse tra la testata e gli interessi economici del fondatore. L’acquisizione di Aol, se da una parte fa da propulsore verso l’internazionalizzazione, dall’altra parte rende difficile mantenere il tono radical chic e scanzonato a cui i lettori si erano abituati. E la testata non è diventata molto diversa da quella «stampa manipolata dalla politica» contro cui la Huffington si è scagliata.

In America alcuni blogger hanno chiesto 105 milioni di dollari di risarcimento, e anche una serie di giornalisti professionisti hanno parlato di etica perduta: “Per farvi un’idea del modello di business dell’Huff Po – ha scritto Tim Rutten del Los Angeles Times – immaginate una galera con schiavi ai remi e pirati al timone». Il New York Times è stato, se possibile, ancora più pesante: «Qualunque sia l’ideologia che professano, coloro che utilizzano così i lavoratori traendone profitti giganteschi fanno evidentemente parte della classe degli sfruttatori. Rileggete Marx. Essi sono nemici dei salariati». Segue parallelismo con «i dirigenti dei laboratori clandestini della Repubblica dominicana e del Messico, le compagnie minerarie della Virginia occidentale e del Kentucky e i padroni degli immensi allevamenti di volatili del Maine».

Il sistema istituito da Huffington Post sembra tanto un successo imprenditoriale quanto qualcosa di molto simile a una sorta di feudalesimo digitale. Certo, internet dominerà sempre di più l’informazione. La carta stampata scomparirà? Non per forza: più probabile si crei un ibrido, una convergenza tra il meglio dei vecchi e dei nuovi media. Ma in Italia? Chi sarà disponibile a fornire docilmente contributi gratuiti, che permettono ad altri di accumulare enormi profitti? La rete per ora si divide tra l’entusiasmo («finalmente la modernità») e lo scetticismo («ci mancavano gli schiavisti americani, non bastavano i nostri»).

Vittorio Zambardino, esperto di tecnologie (già direttore di Repubblica.it) via Twitter invita a non sognare troppo: “Tutti i tentati matrimoni tra editoria corporate e ‘internet player’ sono falliti in Italia”. C’è infatti un precedente illustre: “CNN Italia”, nato grazie a un accordo tra CNN e il gruppo l’Espresso-Repubblica, doveva essere un canale televisivo all news identico alla Cnn, solo in Italiano. Nonostante ci fossero redattori più che qualificati (lingue, esperienze sugli esteri) e un direttore responsabile come Paolo Galimberti, vicedirettore di Repubblica, chiuse nel 2003. Dopo soli due anni. 

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